La battaglia dei diritti. Quelli che qualcuno aspettava da una vita e quelli che qualcun altro, dal canto suo, ritiene altrettanto inalienabili. Al centro del contendere un matrimonio, o meglio un’unione civile. Che il sindaco di Gallarate, , si è rifiutato di celebrare scatenando l’indignazione e la rabbia di un cittadino che a lui direttamente si era rivolto.
La vicenda inizia nella giornata di venerdì a Palazzo Borghi, quando un gallaratese di 51 anni viene ricevuto in udienza dal sindaco – «per parlarmi di tutt’altro, cosa che abbiamo fatto» precisa Cassani – e poi chiede al primo cittadino la disponibilità per poter essere unito civilmente al proprio compagno nella cornice del municipio della sua città. E qui salta il banco. Cassani gli risponde: «Per me il matrimonio è solo tra uomo e donna, io non celebro unioni gay nè tanto meno nessun esponente della mia giunta».
«Una risposta omofoba, non di certo degna di un amministratore pubblico che giura sulla Costituzione – sale sugli scudi il cinquantunenne – Il primo cittadino può avere tutte le credenze e le idee che vuole, ma se esiste un decreto del Governo che dice che due persone dello stesso sesso possono essere unite, non vedo nessun motivo per cui mi debba essere negato questo diritto».
Diritto. La stessa parola che usa Cassani, ribadendo che «Roma può anche legiferare, ma io ho il diritto personale di credere e coltivare un altro tipo di famiglia. Che nasce dal vincolo tra un uomo e una donna. E certo, ho il diritto di rifiutarmi di celebrare l’unione, dal momento che qualunque ufficiale civile che se la sente può farlo al posto mio, come ho spiegato anche al cittadino in questione». Ufficiale che, a quanto pare, non sarà comunque un assessore, se è vero come dice Cassani che nessun membro della sua giunta gli avrebbe manifestato l’intenzione di farlo.
Questo “matrimonio”, ad ogni modo, a Gallarate non s’ha da fare. «Io mi unirò civilmente con il mio compagno, potete giurarci – ribadisce il cinquantunenne – ma lo farò a Milano, lontano da questo Comune omofobo, con il quale non voglio avere più niente a che fare nemmeno cascasse il mondo».
Il cinquantunenne, che preferisce riserbare l’anonimato per comprensibile forma di protezione nei confronti della sua famiglia, insiste comunque sulla volontà di dare la maggior eco possibile a quanto successo: «Sono trent’anni che aspetto che i miei diritti di cittadino, ma ancor prima di essere umano, vengano riconosciuti. E ora che la legge parla chiaro mi devo vedere sbattere in faccia la porta nella mia città? Se tutti giochiamo a nascondino, non andiamo da nessuna parte. Nemmeno con tutti i decreti Cirinnà del mondo dalla nostra parte».
Partita chiusa, insomma. Fino alla prossima richiesta di unione civile che arriverà a Palazzo Borghi. Ammesso che arriverà.