Ci sono banditi che vengono vestiti da figure romantiche, quasi eroiche. Ma io sto dall’altra parte. È questo che pensavo anni fa, quando leggevo uno dei libri biografici su Renato Vallanzasca.
Certo, nella ricostruzione romanzata l’autore ti porta per forza (soprattutto per esigenze editoriali di vendita) a simpatizzare verso il protagonista del romanzo. Inizialmente successo anche a me. Fino a quando non iniziarono le uccisioni di agenti di Polizia. Io sto dall’altra parte.
Nelle mie vene, volente o nolente (e in questo caso io ne sono fiero), scorre il sangue di mio nonno, del padre di mia madre, che servì la Patria nelle file delle Pubblica Sicurezza (come prima della riforma si chiamava la Polizia di Stato). Ritengo di aver da lui ereditato un senso del dovere e dell’appartenenza alla comunità che hanno contraddistinto la sua vita.
Gli agenti uccisi dalla banda Vallanzasca erano più giovani di mio nonno, ma anche lui avrebbe potuto incrociare la loro pistola. O quella di qualcun altro, che aveva scelto la strada più semplice, quella della criminalità. Quella dei soldi facili. Quella della mancanza di responsabilità. Quella che non ti fa svegliare ogni giorno con la pesantezza di quello che ti aspetta e la certezza che sarà una giornata difficile. Quella che ti fa stare lontano dalla tua famiglia. Quella che mette a rischio non solo la tua vita, ma a volta anche quella dei tuoi cari. Io sto dall’altra parte.
Non è solo una questione parentale, anche se certamente questa riveste, e dicendolo penso di essere nel giusto, un’importanza fondamentale.
Le persone, donne e uomini, che scelgono di vestire una divisa, della Polizia di Stato, dei Carabinieri o di uno degli altri corpi di forze dell’ordine, accettano un lavoro non facile, fatto di sacrifici, pagato non certo benissimo, con l’obiettivo di essere utili alla comunità. Io sto dall’altra parte. Da quella di chi rischia la vita per gli altri.