Che cosa spinge uno dei più apprezzati cantautori della tradizione folk americana a tuffarsi nella cultura musicale italiana? In un calderone di storie, evoluzioni, contrasti, musicalità, cadenze e ritmi completamente diversi da quelli di una vita? Quella stessa sana, implacabile, folle curiosità con cui si è avvicinato alla musica.
Senza timidezza, prendendo la sfida di petto: una chitarra in mano e gli accordi imparati nel garage con gli amici, provandoli e riprovandoli, maledicendo la nota sbagliata e gasandosi al primo giro di do azzeccato.
Così Jono è diventato uno dei più apprezzati musicisti della scena indie in circolazione. Così Jono, con la stessa semplicità e immediatezza, si è calato nella nostra realtà, tanto da affrontare quest’intervista interamente in italiano. Jono Manson ha raccontato della sua vita, delle sue amicizie da Oscar, dei suoi oltre 365 concerti all’anno, della sua carriera di musicista e di produttore iniziata nei primi anni 70 tra i club di New York e ora ricca di oltre 15 album (tra cui Almost Home, anche colonna sonora del film dell’amico attore). Ci ha trasmesso la sua passione per «il lavoro più bello del mondo» e ci ha fatto toccare la sua sconfinata curiosità. Quella stessa con cui noi, volentieri, abbiamo navigato tra i suoi ricordi.
Ho cominciato a suonare a 6 anni. Fin da piccolo sapevo che avrei voluto fare il musicista. Avevo un piccolo gruppo e abbiamo cominciato a scrivere canzoni nostre: per necessità, perché non avevamo l’abilità e la capacità di copiare canzoni che sentivamo in radio e poi perché era più facile in un certo senso. Quindi ho cominciato così, la mia educazione musicale non deriva da scuole o lezioni private ma dall’esperienza con altri musicisti: questo è indispensabile. Tanti vanno alle scuole di musica ed escono con l’abilità di suonare ma, a volte, con poca capacità di stare in un complesso vero e proprio.
La scena musicale e le possibilità, negli anni 60-70, erano diverse, particolari.
Sono nato a New York e sono stato fortunato perché sono cresciuto in un periodo musicalmente molto vivo. Ho cominciato a suonare in locali come il “Nightingale” o il “Dan Lynch Blues Bar” nei primi anni 70, la scena musicale era particolare, c’era una sorta di reazione contro tutta la musica disco, un’esplosione di musica suonata in un modo a volte molto crudo ed essenziale, la cosiddetta “new wave”. Ma in ogni locale c’era l’occasione di esibirsi e quindi ho cominciato da teenager a fare live e ricordo di aver suonato più di 365 concerti all’anno, anche più di uno al giorno: uno magari all’ora dell’aperitivo in un posto e uno di notte da un’altra parte. Ho avuto tante occasioni di suonare, collaborare e fare esperienze, travalicando anche tanti generi musicali diversi.
Adesso purtroppo è difficile per i giovani avere queste esperienze, i locali non hanno più soldi, però dico loro una cosa. Ora serve suonare in giro, in ogni posto possibile e con più gente possibile. Vanno bene le scuole ma per me questa è la strada: dire sempre di sì, buttarsi e provare.
Ho cominciato a produrre dischi durante gli anni 80. Credo che queste siano due strade parallele: per esempio ora, oltre a suonare, gestisco anche uno studio di registrazione a Santa Fe, dove vivo. Ho cominciato a produrre perché sono sempre stato interessato a quello che succedeva dall’altra parte del vetro. Ma anche perché ho avuto esperienze non sempre positive con i produttori. Quindi in queste vesti mi sono quasi imposto di cercare di evitare ad altri musicisti di avere le stesse brutte esperienze.
Quello della registrazione è un momento teso e difficile e il feeling con il produttore deve essere essenziale, ci deve essere un ambiente in cui l’artista può creare senza pensieri, senza sentire la pressione, il nervoso. E quest’atmosfera la crea il produttore.
Da musicista americano, quando canto negli States le parole e il testo sono la cosa principale. Quindi a volte il pubblico si ferma lì. Quando invece suono in Italia, tutti ascoltano per un’altra cosa: per le emozioni che trasmette la musica. Questa è una grande lezione. Oltre a delle parole che devono avere un senso, la cosa principale è trasmettere emozioni in cui coesistono diverse cose, la vostra storia, la vostra letteratura, la cultura, la poesia, il cibo.
Ci siamo conosciuti a Santa Fe: lui era qui a girare un western ed è poi venuto a sentirmi suonare. Tempo dopo mi squillò il telefono. “Ehi, sono Kev”. “Chi?” risposi io. “Kev Costner, sto lavorando a questo nuovo progetto, L’Uomo del Giorno Dopo, voglio farti leggere la sceneggiatura perché ho pensato che la tua musica sarebbe perfetta”. Ero al 100 per cento d’accordo con lui – ride -.
Sì, ero il musicista nella scena della festa di Pineview. Ma sono anche accanto a Kevin in una delle scene finali. Era a cavallo e durante la produzione mi chiesero se sapessi cavalcare. Ovviamente risposi di sì, ma non era vero e ho imparato al volo. Cosa potevo fare? Dire di no? Non scherziamo.
Gli ho dato qualche lezione all’inizio: nelle pause sul set gli ho dato qualche suggerimento ma sapeva già suonare, voleva fare pratica.
Pochi giorni fa qui a Santa Fe ho ascoltato un gruppo ucraino molto bravo, che faceva musica tradizionale mista a suoni tribali e etnici. Qui siamo fortunati, Santa Fe è un paese piccolo ma è cosmopolita, è una città molto aperta con la gente da tutto il mondo e quindi anche musicalmente siamo molto aperti.
Questa è una cosa bruttissima ma purtroppo è una delle verità del nostro tempo, e se qualcuno ha paura lo capisco. Personalmente non smetto di viaggiare, di stare in giro e di andare ai concerti, sono già troppo vecchio per morire giovane.
Sto collaborando con Edoardo Bennato per tradurre e adattare alcune sue canzoni in inglese. Quattro anni fa ho fatto un adattamento del suo brano “L’isola che non c’è” dal titolo “Never Neverland”. Edoardo l’ha sentita, ha apprezzato e mi ha chiesto di collaborare con lui. A Varese? Tornerei volentieri. Mi sono sempre trovato bene. Kevin Costner? Un giorno verremo e ci mostrerete la vostra bellissima città.