La Biennale d’architettura di Venezia sembra essere passata sotto tono, pasticciaccio Mose oblige, eppure. Una Biennale da tenere invece assolutamente in memoria, una svolta epocale, quasi come se una sorta d’inconscio collettivo avesse ispirato, ben prima dello scandalo veneziano, i fautori dell’evento.
Le eccentricità inutili dei cosiddetti archistar sono state messe finalmente al bando, privilegiando un netto ritorno alla vera essenza dell’architettura. Un applauso a Rem Koolhaas che con il suo nordico rigore ha rimesso in auge il ruolo autentico dell’architetto, colui che crea non solo abitazioni ma che agisce anche a livello urbanistico e che proprio per questo è investito di un’enorme responsabilità, quella di essere fra i protagonisti attivi del mutamento sociale che siamo costretti a vivere.
Città da ridisegnare a misura d’uomo, a cui restituire un po’ di quell’umanità perduta a beneficio, appunto, di raccapriccianti e scandalose operazioni mirate solamente ad arricchire pochi a detrimento di migliaia di persone. Una Biennale che è anche un mea culpa senza compiacimento alcuno, una provocatoria sorta di denuncia del bene, ma anche del male che è stato inferto al nostro paese in questi ultimi decenni. Una panoramica senza veli di tutto ciò che è stato fatto fino ad ora che dovrebbe far riflettere su cosa prevedere per il nostro incerto futuro. Ed ecco che nel Padiglione Italia, nella sempre commovente ed impressionante vastità dell’Arsenale, tutta la Penisola viene passata al pettine fino, dalla Milano come laboratorio di idee ai quartieri della mafia installata al Nord.
Il tutto servito attraverso il filtro dell’arte, il cinema all’occorrenza, 87 film selezionati dopo una scelta scrupolosa, un trait d’union che mette in movimento la staticità dei progetti e immagini su carta. Fundamentals, appunto questo il tema di questa edizione, interpretata in maniera puntuale da tutti i paesi presenti che si sono allineati facendo un esame di coscienza dell’evoluzione sociale attraverso l’architettura.
Ne sono scaturiti dei profili rivelatori e senza dubbio a volte sorprendenti, soprattutto per i differenti stati. Una sorta di processo alle intenzioni, una scoperta di quanto storia e vicissitudini siano legate a doppio filo con la disciplina vitruviana. Una Biennale che merita di essere visitata e, soprattutto meditata.
Nicoletta Romano
© riproduzione riservata