«Fu a un ballo che conobbi , – racconta la poetessa (Piacenza 1914, Como, 1995) in “Vita con Giulio”, all’interno del corposo volume “Daria Menicanti, Il Concerto del Grillo, L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite” a cura di , e – in una malinconica sala da tè milanese: me lo presentarono gli amici come un giovane filosofo di severa cultura e sul punto di affermarsi. Lo guardavo ballare e mi chiedevo come quel baluginante arruffato ragazzo di provincia – veniva da Pavia – oltre che studioso di cose astratte fosse anche un cultore della danza. Ma più tardi, discorrendo con lui, seppi con quanta serietà considerasse quell’arte: la danza, secondo lui, era il modo in cui il corpo pensava… e quelli che la disprezzavano avevano una mentalità da “curati e vecchie zie” e avrebbero fatto bene a liberarsene».
Nel prezioso scritto biografico, la poetessa, soprannominata “Momi” o il “Grillo” nella sua numerosa e allegra famiglia piacentina, ricorda il primo incontro “danzante” con il filosofo che diventerà suo compagno per un intenso tratto di vita, il suo accento lombardo-emiliano, i suoi bellissimi occhi neri dalle folte ciglia, i lunghi capelli ricci in rivolta contro la foggia austera e militare del tempo. Il filosofo Giulio Preti si era laureato l’anno prima a Pavia, sulla “Fenomenologia” di Husserl di cui fu tra i primi studiosi in Italia, e aveva iniziato a frequentare l’ambiente intellettuale e fervido della “Scuola di Milano”, che gravitava attorno all’affascinante filosofo , con cui Daria Menicanti stava preparando la sua tesi di laurea in Estetica, mentre si dedicava ad “innumerevoli lezioni private”.
Nel 1937, la loro amicizia si trasformò in uno “strano e confuso matrimonio”, definito dall’amico , “dròle de menage”. «Fu dagli inizi infatti che tra noi ci furono scontri ed impennate, si alzarono muri di silenzio: tutti e due scotevamo furiosamente la catena, in particolare io che mi dolevo prigioniera di un uomo, sia pur di eccezione, ma estremamente possessivo e geloso». Giulio e Daria frequentavano quel gruppo milanese di intellettuali allievi del filosofo Banfi, «, e Vittorio Sereni: io ci stavo bene con quelli, mi scaldavo alla loro amicizia, mi schiarivo alle loro idee». Ma il temperamento difficile di Giulio Preti, solitario e scontroso, riluttante a qualsiasi legame, lo portò ben presto a allontanarsi dagli amici, isolando così anche la compagna, che ne soffriva moltissimo.
Entrambi insegnanti, si abbandonavano spesso e volentieri a spese inutili ed eccessive: Preti acquistava libri rari, raffinate penne stilografiche, strumenti musicali, svariati oggetti di lusso e faceva viaggi impossibili; a quelle stravaganze i due magri stipendi da insegnante difficilmente potevano bastare. Daria Menicanti si rivelava però indulgente e comprensiva: «tacevo e gli ero indulgente: del resto le mie lezioni private riuscivano prima o poi a puntellare la nostra tremolante economia».
Insegnante prima che poetessa, Daria Menicanti ha iniziato a emergere, nel panorama poetico italiano relativamente tardi, pubblicando la sua prima raccolta poetica a cinquant’anni, poiché anche le prime poesie giovanili appartenevano a un’esistenza troppo privata e segreta.
Da dietro le quinte dove si trovava amabilmente a vivere «questa vita lirica privata assai privata», è stato il poeta e amico Vittorio Sereni a convincerla a pubblicare “Città come” nella collana de Il Tornasole, nel 1964, e poi due raccolte, “Un nero d’ombra”, nel 1969, e “Poesie per un passante”, nel 1978, per Lo Specchio, sempre per la Mondadori. Quasi inspiegabilmente poi, una volta che Sereni non si trova più a lavorare in Mondadori, le sue poesie vengono rifiutate, la Menicanti ricorre a case editrici anche sconosciute, piccole come Quinta generazione e Lunario nuovo.
“Ultimo quarto” esce, nel giugno 1990, per Scheiwiller, così si consuma una risalita del crepuscolo, con la prefazione di , sua eterna, fedelissima amica e collega alle “Arconati” di Milano. «Le poesie “Ultimo quarto” – sottolinea Silvio Raffo nel “Concerto del grillo” introduzione al volume omonimo – scritte su bloc-notes a matita, travagliate da numerose revisioni, non molte, ma tutt’altro che prive d’interesse». Ormai le sue condizioni di salute si sono fatte precarie, «soprattutto dal punto di vista psichico; le amorevoli cure della nipote – scrive Raffo – che per breve tempo l’accoglie nella sua casa, si rivelano insufficienti e si rende necessario il ricovero, nel 1993, alla “Fondazione Fornasari” di Mozzate, in provincia di Como», dove la poetessa muore, il 4 gennaio 1995.
«Siamo giunti al traguardo: amaro ma non nichilistico traguardo – sottolinea Raffo – di sapienza (uno stato simile al “wiser and sadder” di Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio), un allunaggio sine reditu del grillo e del suo fertile dubbio a “improvvise invenzioni” più impalpabili ma più rassicuranti, proiettate nell’etereo e nell’eterno».