La fine di Fabo in Svizzera. Cappato rischia fino a 12 anni

Suicidio assistito: in Italia è illegale. Così il dj milanese ha scelto di morire assumendo un mix letale di farmaci. Nel Varesotto si accende il dibattito e i diversi partiti politici chiedono che venga finalmente fatta una legge chiara

Noi l’abbiamo conosciuto come Dj Fabo. Ha riempito le pagine dei giornali e delle televisioni con la sua richiesta disperata di morte. Perché sì. A volte si può desiderare di morire. Quando quella vita tanto cara ti tradisce fino a diventare una “non vita”. Questo è quello che è accaduto a Fabiano Antoniani, 39 anni. E ieri alle 11.40 è riuscito ad esercitare la sua libertà di scelta: è morto in Svizzera, dopo avere assunto un cocktail di farmaci. In una nazione dov’è legale la pratica del suicidio assistito. Fabo era un broker milanese, assicuratore e più di tutto un Dj di successo. Se ne andava in giro con la sua vita tanto amata, piena di musica – ovviamente – viaggi e divertimento: «Sono un ragazzo vivace e un po’ ribelle», come si era definito lui stesso durante le interviste concesse a Le Iene.

Ma la vita di Fabo non è finita ieri, 27 febbraio del 2017. Si è interrotta prima. Era il 13 giugno del 2014, e lui aveva solo 36 anni. È notte fonda e Fabo sta tornando da un dj set di un locale milanese. Mentre viaggia a bordo della sua auto rimane coinvolto in un drammatico incidente automobilistico: sta guidando, gli sfugge il telefono di mano, si china per afferrarlo, quando riprende il controllo del volante sbanda a destra e impatta contro un’auto

che procede lungo la corsia di emergenza. Lo scontro è atroce. L’impatto lo sbalza fuori dall’abitacolo a metri di distanza. La diagnosi non lascia speranza: cieco e tetraplegico, condannato a restare immobile per il resto della vita. Fabo non si è arreso subito. Ci ha provato – con l’appoggio della sua mamma e della fidanzata Valeria – ad abituarsi a quella nuova condizione; a migliorarla. Ma niente è cambiato. Viveva, o non viveva, fermo in un letto. Con dolori lancinanti che bloccavano i muscoli. Con gli occhi aperti ma ormai ciechi su quella vita che amava tanto. In Italia la sua richiesta è stata ignorata. Così lui è andato a morire lontano. E prima di farlo ha lanciato questo messaggio attraverso l’associazione Luca Coscioni: «Sono finalmente arrivato in Svizzera, e ci sono arrivato purtroppo con le mie forze e non con l’aiuto dello Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e la ringrazierò fino alla morte».

Ad annunciarne il decesso, lo stesso Cappato, dell’associazione Luca Cascioni che si trovava in Svizzera con lui.Ed ora rischia fino a 12 anni di carcere, in base all’articolo 580 del codice penale italiano: «Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni». «Fabo è morto alle 11.40», ha scritto Cappato su Twitter. «Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo». Per i radicali italiani quella di Fabo è stata una scelta di coraggio e dignità: «Ha scelto di smettere di soffrire, ma ha potuto farlo in un Paese che non è il suo. Le sue ultime parole – “sono arrivato in Svizzera con le mie forze, senza l’aiuto del mio Stato” – sono una lezione a un Parlamento irresponsabile e, al tempo stesso, un appello a non smettere di lottare perchè anche in Italia i cittadini siano liberi di scegliere». Scrivono in una nota Riccardo Magi, Michele Capano e Antonella Soldo, rispettivamente segretario, tesoriere e presidente di Radicali Italiani. «Con l’associazione Coscioni», ricordano , «come Radicali italiani nel 2013 abbiamo depositato una proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia e il pieno riconoscimento del testamento biologico. Eppure, nonostante, la stragrande maggioranza degli italiani si dice favorevole alla libertà di scelta, ancora oggi il Parlamento non fa che rimandare il dibattito sul fine vita. Grazie quindi a Fabo per avere, con l’aiuto di Marco Cappato, fatto del suo corpo e del suo dolore uno strumento di lotta democratica e di resistenza a un crudele proibizionismo».