– «Provate a immaginare una provincia di Varese senza più agricoltura né allevamenti. Ecco: se andiamo avanti così, succederà presto. Ci sentiamo abbandonati da tutti».
Quella che nella sintesi giornalistica è “la guerra del latte”, nei numeri del Varesotto è un dato agghiacciante: nel 1990 le aziende agricole del territorio erano 550, ora si è scesi a 100.
Il tassametro delle “morti” nel settore primario corre, perché i sopravvissuti si trovano oggi a fronteggiare giganti dal volto fumoso che li costringono a strizzare le mammelle delle loro mucche praticamente in perdita: al litro il latte viene pagato 33-34 centesimi,
quando i costi di produzione variano (dato Ismea) tra i 38 e i 41.
Questa sorta di beneficenza bianca ha, invece, delle fisionomie ben precise, anche dalle nostre parti. Chi vuole andare al di là delle immagini delle proteste degli allevatori davanti agli stabilimenti della Lactalis o nei pressi dell’Antitrust a Roma può salire sulle colline di Brenno e prendere contatto con la realtà della Martinelli, per numero di capi l’azienda più rilevante della provincia: 800 mucche tra Arcisate e Azzio, terreni per la coltivazione del foraggio che misurano complessivamente 200 ettari, sparsi per un territorio che va da Laveno a Porto Ceresio e interessa 14 comuni.
«Numeri da far invidia alle aziende di pianura» dice con orgoglio uno dei soci titolari, . In un Varesotto in cui le altre “sorelle” arrivano a 50/60 capi e in quella Arcisate che una volta era definita “la perla del latte” per la quantità di imprese del settore gravitanti nella sua orbita, questo unicum va essenzialmente avanti con il lavoro familiare: solo quattro dipendenti assunti, il resto lo fanno i sei Martinelli che sono ormai arrivati alla seconda e alla terza generazione di una storia incominciata nel 1950.
«Non esistono le otto ore di lavoro, a volte si va avanti fino all’una o alle due di notte. Ci facciamo una settimana di vacanza all’anno e ogni mattina alle 5 (nonché al pomeriggio alle 17) abbiamo la mungitura, che dura tre ore».
La produzione di latte è il cardine principale del fatturato, anche se – con la crisi – si sono cercate alcune diversificazioni («legna, spalare la neve, aprire l’agriturismo. Piccole cose che vogliono dire, però, cambiare lavoro…») che portano a poco.
«I costi non tornano – risponde inevitabilmente Paolo Martinelli, la cui azienda conferisce la materia prima al gruppo Italatte, costola della multinazionale a conduzione francese Lactalis – Il deficit si fa pesante e stiamo intaccando i nostri risparmi».
Due anni fa il prezzo si aggirava sui 44 centesimi: «Poi è cambiato tutto. Ora la quota viene fissata mensilmente senza un riferimento costante. Noi fatturiamo 36 centesimi al litro, poi – al momento del pagamento che avviene di norma a 60 giorni – viene fatta una ritenuta che varia dai 2 ai 3 centesimi. Solo due mesi dopo, quindi, riusciamo a sapere a quanto abbiamo venduto il nostro prodotto».
Perché succede questo? «Perché le multinazionali hanno ormai comprato tutto, spinte da un interesse che guarda al mercato dei consumatori e non ai produttori. Così facendo si è smesso di salvaguardare la produzione nazionale e locale, sbaragliandola alla concorrenza di Paesi (un esempio? La Lettonia) dove i costi si aggirano sui 22 centesimi al litro. Non abbiamo più armi e non possiamo competere, ma la gente è sicura di bere latte e di mangiare derivati che siano salubri?».
Nelle trattative a livello nazionale degli ultimi giorni i produttori sono riusciti a strappare l’offerta di un centesimo in più. Rimandata la mittente.