In un Paese dove il comandante Schettino viene chiamato da un Università a illustrare il suo credo riguardo alla gestione del panico, c’è poco da stare allegri.
Se la consuetudine dovesse prendere prende piede, ci ritroveremmo con Totò Riina a spiegare i cardini della legalità, Rocco Siffredi quelli dell’astinenza sessuale e con Francesco Totti a dispensare dalla cattedra consigli sull’uso corretto del congiuntivo e delle principali figure retoriche, dall’anacoluto alla sineddoche.
Al di là del doveroso sdegno, però, Schettino in maniera del tutto volontaria una lezione ce l’ha data.
Dalla plancia della Concordia ha dimostrato nel peggiore e più tragico dei modi come la navigazione a vista, quella sotto costa, che pure sembrerebbe la più agevole, spesso si rivela una scorciatoia per la catastrofe.
Occorre, in mare come nella vita, saper tracciare la rotta più vantaggiosa e poi tenere ferma la barra del timone, anche quando la terraferma scompare dietro l’orizzonte. Saranno le stelle, la bussola e il calcolo di deriva e scarroccio a consentirci di arrivare verso il nuovo porto. Stare troppo vicini alla costa non solo azzera la possibilità di nuove esplorazioni (pensate se Colombo, Vasco de Gama o Magellano avessero ragionato così…), ma diventa un autogol quando il mare si concede alla tempesta, le onde si rincorrono minacciose e il vento fischia raffica dopo raffica.
È meglio in quei casi – spiega la saggezza marinara – trovarsi al largo, lontano da coste e scogliere. Passata la buriana, sarà possibile riprendere la giusta rotta.
La metafora ben si adatta all’Italia attuale, preda della tempesta economico finanziaria che il Pil registra con la implacabile processione di decimali in rosso. Sono questi i momenti in cui, anche in politica, la navigazione a vista si rivela una sciagura. Occorre, proprio quando la bufera si rafforza, tracciare una rotta ambiziosa, poi fare di tutto per mantenerla.
Non è quello che si manifesta oggi nel Paese. Neppure a Varese e provincia.
L’impressione è che a tutti i livelli ci si accontenti del piccolo cabotaggio, preoccupati di doppiare senza danni il promontorio che intralcia il cammino, piuttosto che di stabilire con coraggio la meta da raggiungere. Se così fosse, infatti, Varese avrebbe già deciso cosa vuol fare da grande: città turistica, polo culturale, palcoscenico di grandi eventi sportivi, hub del terziario, epicentro della green economy o altro.
Definito l’approdo, solo allora si potrà scegliere la rotta più vantaggiosa, stabilendo con certezza le priorità, sfrondando i programmi, investendo con maggior decisione su quanto ci porta alla meta. Il nuovo teatro, a questo punto, potrebbe diventare una scelta strategica oppure solo un piacevole gadget. L’università si potrebbe trasformare nell’enzima che catalizza la crescita del territorio, aggregando intelligenze e investimenti, oppure venire vissuta come un corpo quasi estraneo, dotato di vita propria e parallela. In ogni caso tutte le decisioni, anche quelle apparentemente più marginali, andrebbero commisurate al cammino da compiere.
Se così fosse stato fatto nel secolo scorso, non ci troveremmo adesso a combattere con un traffico ingigantito dalle amnesie politiche di chi doveva e poteva dotarci di strade adeguate durante il boom dei motori e non lo fece. Se così si facesse adesso, si potrebbe finalmente capire se i cipressi americani che mezzo secolo fa qualcuno piantò proditoriamente ai Giardini Estensi sono un problema prioritario di Varese e se la loro condanna a morte, decretata dalla giunta, ci deve rallegrare o meno. Oppure se le vere questioni sono altre. E allora trovare il modo per risolverle bene e in fretta. E magari anche le persone per farlo.
Marco Dal Fior
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