– «Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo». È inciso indelebile, immutabile e perentorio sulla pietra a Dachau. Inciso per ricordare. Inciso per tenere viva la memoria sull’Olocausto; sullo sterminio che fu e che non può più essere. Che non deve essere. E se oggi, come ogni 27 gennaio, commemoriamo la liberazione da parte dell’esercito russo del campo di sterminio di Auschwitz è solamente perché «la memoria è come il mare: può
restituire brandelli di rottami a distanza di anni». Lo scriveva Primo Levi. Lo scriveva con il dolore, i patimenti, il sangue di chi ha vissuto quell’esperienza. Un qualcosa che fa male solo a pronunciare, a pensare, a nominare: la Shoah. Lo scriveva lui, lo ripetiamo noi. Il nostro viaggio, oggi, corre lungo le rotaie di tutta Europa. Lungo le lettere e le parole che hanno restituito memoria e dignità alle tragedie e alle sofferenze di un intero popolo. Il viaggio degli uomini che non sanno più come «affrontare il vento, come un tempo facevano, e non come qui, come vermi vuoti d’anima». Il viaggio degli internati nei campi di sterminio tedeschi.
Un viaggio apocalittico che non può non iniziare da quelle pagine scritte tra rimorso e rigetto dal chimico – «prestato alla letteratura», come amava definirsi lui – nato sotto la Mole Antonelliana Primo Levi. Tra le pagine di cadiamo in un universo a noi parallelo e sfuggente. Un universo invaso dal frastuono degli ordini latrati come cani rabbiosi dai Kapò, l’angoscia della morte, la lotta degli “stupidi” per la vita. Levi ci porta nel campo di Monowitz a cementare con il dolore i mattoni che hanno tirato su l’industria del lager, la “Buna”. In una grottesca rappresentazione della superiorità di una razza sull’altra, anzi, dell’inferiorità di una razza rispetto l’altra. Che, come racconta Marco Paolini nel suo , era fondata sul desiderio del regime Nazista di sopprimere le creature umane considerate difettose fin nel loro DNA. L’agghiacciante e folle ciarla ottocentesca che è l’eugenetica ha creato veri e propri mostri. Gli stessi che hanno confinato dietro un filo spinato, nelle mani del medico della morte Josef Mengele, Szlamek Pivnik. Un ragazzino, di appena sedici anni, che finisce per ritrovarsi in un incubo senza tempo e soluzione. di un luogo dove «Non c’erano calendari. Nessuna data, nessuna ricorrenza, nulla che segnasse lo scorrere del tempo. Per i più fortunati, per quelli di noi che sono rimasti in vita, a ogni notte seguiva un altro giorno, e i giorni diventavano settimane». Un non tempo dal quale emerge solamente il «modo in cui un uomo accetta il suo ineludibile destino e con questo destino tutta la sofferenza che gli viene inflitta, dal modo in cui un uomo prende su di sé la sofferenza come la sua croce, sorgono infinite possibilità di attribuire un significato alla vita, anche nei momenti più difficili, fino all’ultimo atto di esistenza». Una frase questa, che sa di sentenza, impressa nella memoria di Viktor Frankl e raccontata nel suo . Un viaggio che concludiamo volontariamente con chi è entrato volontariamente a Monowitz, come Denis Avey, il soldato della Royal Army che si travestì da häftling ebreo per testimoniare direttamente l’orrore perpetrato dalle SS. Lui, .
. Le pellicole che trattano dell’Olocausto in realtà sono decine. Quelle raccolte qui sono quelle che abbiamo visto. Non abbiamo la pretesa che siano le migliori in circolazione, ma sono quelle che ci hanno aperto gli occhi. Quelle che – ne siamo convinti – i negazionisti dovrebbero sbirciare, per carità mica capire, perché oggi come oggi captiamo segnali preoccupanti. Tipo gente che racconta che sei milioni di persone sterminate con un piano preciso siano una mera invenzione politica, o quelli che fanno il saluto romano (valeva per Mussolini ma pure per Hitler quel braccio teso). Cinque film scelti perché trattano la storia in modo fedele.
E allora cominciamo dal primo. , uscito il 21 gennaio, per la critica è il Film sull’Olocausto. Nessuno potrà mai girare nulla di più di questo. E ci rivolgiamo ai negazionisti, a quelli che ancora dicono ebreo come fosse un insulto: il regista è Laszlo Nemes, è ungherese, ed è andato oltre il confine fisico del lager. La telecamera sfiora i cadaveri, sei in mezzo all’orrore, è ambientato nel 1944, racconta in modo durissimo ciò che davvero è stato. C’è sempre stato una sorta di pudore nel rappresentare l’Olocausto, si può dire? E’ troppo forte? Nemes supera il senso di pornografia che l’essere umano di solito avverte nel guardare il tentativo di annientare una razza. È, a suo modo, il negativo de La vita è bella, che qui non citiamo, e che smentisce il film di Benigni.
Non fu una favola per bambini. I bambini, generalmente, nei campi di sterminio, finivano soffocati su un lettino. tenta di affrontare con ironia una cosa abominevole. Il film di Radu Mihaileanu è la storia di un sogno. Di una fuga, di un’autodeportazione, che al risveglio, però, finisce in un incubo. Paradossalmente chi, nel sogno, salva i fuggiaschi che però non riusciranno a fuggire, sono degli Zingari. L’accento sulle minoranze, come all’epoca erano considerati gli ebrei, è mirabile. Si ride sino al risveglio. Poi basta. Dovendo scegliere un italiano scegliamo Gillo Pontecorvi con . La carrellata che mostrava una donna morta, fulminata sul recinto del lager, mentre sceglieva di essere libera o di morire libera, fu all’epoca giudicata immorale. Era il 1959 mostrare certe cose non stava bene. Ma faceva bene. Non era passato molto e in molti dubitavano. L’informazione era quella che era, i nazisti erano in fuga ma ancora ricchi e potenti.
I film erano allora per la gente come gli affreschi erano per i fedeli nel Medioevo: nessuno, in entrambi i casi, sapeva davvero leggere la storia e le immagini aiutarono molto. è invece un film di Luois Malle. Val la pena di vederlo perché racconta della pochezza umana durante la Seconda Guerra mondiale. Il senso del film è nel titolo: quando Julien se ne va, con i tedeschi, un sacerdote saluta lui e altri due ragazzi ebrei dicendo: “Arrivederci ragazzi, a presto”. Ma sa che non li rivedrà più. Chiudiamo con , di Spielberg, patinato, levigato come ogni film del regista in questione. Tutti quanti ricordano la ragazzina con il cappottino rosso. Noi no. Ricordiamo Amon Göth che dopo una notte d’amore, esce sul balcone, imbraccia il fucile e spara agli uomini e alle donne nel campo come fossero oggetti. È in quel gesto, compiuto da decine di tedeschi all’epoca, che noi individuiamo tutto l’orrore dell’Olocausto.