E’ musica, la musica delle parole, il respiro del tempo, la voce della memoria. Ascolta: ogni carattere, ogni frase, ogni riga ha un suono proprio, un rumore o un soffio, una corda che vibra in sordina, l’acqua che ribolle, lo schiocco di un bacio. Non è soltanto la carta a risuonare, è l’inchiostro, la colla, perfino la polvere che si nasconde tra le pieghe, a volte il segnalibro di seta squilla come un campanello».
Moraldo mi fissava, ma i suoi occhi seguivano la silenziosa melodia che scaturiva dal libro aperto, un’edizione nemmeno tanto pregiata dei racconti di Cechov, rilegata certo, ma anonima, un libro da bancarella della domenica nei mercatini di periferia.
«Gli uomini non sanno più riconoscere i segni, quelli che essi stessi lasciano qua e là in ogni cosa che fanno. Nei libri c’è musica, il fiato di un universo senza tempo, quello che ricreiamo ogni giorno senza accorgercene. Ma non la sappiamo ascoltare. Leggiamo sì le parole, ci compiacciamo di una bella pagina, ci commuoviamo a volte fino alle lacrime, ma lo facciamo in silenzio, in un silenzio interiore che può essere rotto da una musica mai udita,
quella dell’anima».
Sapevo poco di lui, ma la sua enorme biblioteca mi raccontava molto più di qualsiasi personale confidenza. Libri di ogni genere e argomento, edizioni rare e normali best seller, saggi e biografie, manuali e guide di viaggio, racconti di teatro e melodramma, volumi d’arte squadernati su imponenti leggii, riviste antiche e moderne dicevano di una smisurata curiosità, di un indicibile sapere e di un’attenzione maniacale per la parola.
Moraldo era senza età, forse aveva lavorato nelle biblioteche o forse girato il mondo – a volte parlava di suoni che in alcune pagine non si percepiscono da noi, ma si fanno intensi nei boschi del Grande Nord – ma ogni volta che mi capitava di vederlo assumeva un aspetto diverso, quasi che i libri lo trasformassero, facendolo somigliare all’autore o a uno dei personaggi e la musica che ascoltava, la sua musica, contribuisse a plasmargli i lineamenti e a modificarne il timbro della voce, a volte profondo, quasi cupo, altre perfino stridulo.
Non aveva nulla di memorabile nei tratti, non alto e piuttosto magro, la barbetta corta e poco curata, la bocca dalle labbra sottili ma ben modellate, il naso altero con un piccolo infossamento in punta.
Gli occhi erano chiari, di un azzurro delicato che a volte aumentava di contrasto fino a pungere, come avviene in un lago quando il sole è oscurato per un attimo dalle nuvole. Solo gli orecchi erano formidabili, quasi fantastici nella loro forma allargata, il padiglione somigliante a un violino ma perfettamente adeso al cranio e di un colore più acceso rispetto alla pelle del viso. Ora sedeva in una vecchia bergère dalla fodera lisa, e alla luce di una lampada di bachelite ascoltava ciò che le parole di Cechov gli suonavano nella testa, sfogliando le pagine e avvicinandole all’orecchio come si fa con una conchiglia.
«La melodia non si compone subito, dipende dal tipo di carta, dall’inchiostro, da quante dita abbiano lasciato tracce nella cellulosa. Una volta un racconto di Simenon rimaneva muto, passai un’intera notte a sfogliare e a risfogliare, ma niente, le parole si mantenevano silenziose e immobili, perché sai, a volte si mettono a danzare sul foglio, se la musica arriva chiara. Non capivo, la sua prosa porta una musica snervata, dissonante, mescolata a note di musette e di chitarra, a canti gitani e nenie orientali, perfino al rombo della metropolitana di Parigi o allo sfrigolio del fiammifero che accende il tabacco della pipa. Da quel libro non arrivava niente, un suono vuoto e fastidioso, un acufene provocato dagli spazi bianchi tra le parole. Poi da una pagina saltò fuori un fiordaliso disseccato, che aveva lasciato l’immagine di sé sul foglio, una piccola sindone pallida sufficiente a confondere la partitura, a impedire al direttore della mia orchestra di dare l’attacco. I fiori suonano un’altra musica, che non si trova nei libri ma nei prati e nei giardini, la si ascolta con gli occhi, è un esercizio più difficile ma ci si può riuscire. I più bravi riescono a sentirla anche filtrando i profumi, che danno toni più acuti a far da contrappunto agli altri più gravi. Un tipo bizzarro mi ha detto che il suono della rosa gli ricorda l’insondabilità di Bach, l’“Arte della Fuga”, e il giglio martagone l’ouverture del “Turco in Italia” di Rossini. Io più modestamente ho ritrovato in quel fiordaliso rinsecchito qualche nota di Chopin, quelle dei canti popolari polacchi che lui ascoltava da ragazzo».
Moraldo sorrideva e con le dita accarezzava le pagine una ad una, con un movimento che ricordava quello di un’arpista. Il frusciare della carta rompeva il silenzio della stanza come una brezza leggera e ipnotica, un pulviscolo sottile si levava dalla carta, e in controluce s’illuminava a tratti, simile a una pioggia di pagliuzze d’oro.
«La cosa più difficile, mio caro Guglielmo, è risvegliare i suoni più antichi, le pagine sono incurvate, appiccicate, sporche, l’armonia si forma soltanto a singhiozzo, in un volume del cinquecento a volte ti sembra di ascoltare Cage. L’umidità allunga le note, le distorce, e le dissonanze colpiscono come aghi, gli accordi somigliano allo sfrigolio delle dita su un vetro bagnato. Devi far forza su di te e cercare il punto di leva, il capofila, il respiro con cui l’autore dello scritto incominciò il suo lavoro. Non è facile, lo so, spesso chi scrive lo fa per sé stesso, non vuole che l’ascoltatore respiri con lui, e mette dei trabocchetti tra un rigo e l’altro del pentagramma, il fiato si spezza e si ricompone, l’armonia si fa sussultante e non riesci più a seguire il canto che le pagine dispiegano una dopo l’altra».
Mentre parlava, osservavo uno scaffale della vasta libreria in legno di ciliegio, dove un unico libro si mostrava aperto, le pagine sfarfallanti e leggermente piegate in basso per il peso della carta. “Racconti della Scapigliatura milanese”, antologia in ottavo, copertina rigida e sovraccoperta sbrindellata, giallina, rammendata qua e là con qualche fettuccia di scotch.
Mentre mi domandavo perché un solo libro stesse lì, in piedi come un soldatino, e per di più aperto a ventaglio, Moraldo rispose al mio interrogativo muto, scrutandomi con gli occhi diventati improvvisamente più chiari.
«È uno dei miei altoparlanti, chiamo così quei libri che lascio liberi di dirmi ciò che vogliono, non è necessario accostarli agli orecchi per ascoltarne il suono, lo dispensano da soli, come fa il gelsomino con il suo profumo. Adesso gli scapigliati stanno bevendo del vino novello sotto una pergola, sento il cozzare dei bicchieri e il frusciare del Naviglio lì vicino, le donne ridono e la fisarmonica accompagna un tenorino. “Un sol riccio, ‘a tuoi capelli, ruba o cara, ruba o cara e dallo a me…”, la cantava il Barbapedana, una di queste sere può darsi che la sua chitarra mi faccia compagnia. Il tempo è secco, la carta scricchiola, ma gli strumenti a corda suonano meglio, con l’umido si scordano, diventano striduli. Sai, gli altoparlanti a volte riservano sorprese, da un libro di Piero Chiara, forse “La stanza del Vescovo”, un pomeriggio uscì un’intera conversazione in russo. La voce arrivava lontana e di tanto in tanto era spezzata dal rumore del vento. Non capivo cosa c’entrasse ma di colpo mi ricordai del principe Troubetzkoy, che Chiara ogni tanto osservava veleggiare nelle acque del lago Maggiore, a bordo del suo magnifico due alberi. Era lui che parlava e la voce andava e veniva, cullata dal movimento della barca, e un’amica, o forse una sua modella, gli rispondeva con un accento cantilenante».
Moraldo sorrideva e intanto carezzava i dorsi di altri libri, questi appoggiati “di pancia” l’uno sull’altro, tutti di piccolo formato e con copertina blu notte.
«I romanzi di Camilleri, quelli del commissario Montalbano. Non suonano più. Hanno bisogno di riposare e parecchio, come il buon vino. La loro musica si farà udire di nuovo tra molti anni, quando nessuno ricorderà più le storie trasmesse in televisione. Lì i suoni sono affascinanti, a volte cullanti, misteriosi, ma non sono quelli che l’autore ha sentito dentro di sé al momento di scrivere e la carta ha conservato per restituirceli con un tempo più lento. Oggi siamo accerchiati da pseudo suoni, fate morgane che ci attirano con la loro apparente bellezza, ci allontanano dalla verità e dalla riflessione: certi libri si fanno sentire a volume altissimo, musica distorta, eppure a volte ipnotica, colorata e succulenta, che ci appaga per qualche ora poi se ne va per sempre. Qualche volta servono anche loro, fanno l’effetto di una droga blanda, un tonico, una scossa come quella che può dare il rock, le pagine patinate suonano come un sofisticato impianto hi-fi, ma l’anima è assente, c’è soltanto il corpo, un corpo sensuale e seducente, pericoloso».
La voce del saggio fluttuava leggera nella stanza, forse era parte stessa dei suoni provenienti dai libri, che lui pareva ascoltasse in ogni momento, nascosti nel suo orecchio interno, collegato alle emozioni del cuore e alla memoria dell’ignoto.
Chissà come suonerà una biografia di Puccini, quali voci rumori e gridi arrivano a lui da “Guerra del ‘15” di Giani Stuparich, se la vecchia Vienna di Stefan Zweig ballerà ancora quel valzer, o il vento delle Langhe sussurrerà dalle pagine di Pavese e di Fenoglio.
«Sai Guglielmo, quando Delio Tessa scriveva ascoltava la radio, dalle sue prose esce la voce di Rabagliati, del Trio Lescano e di Silvana Fioresi, spesso devo chiudere leggermente le pagine perché il volume è troppo alto. Una volta ho sentito anche gorgogliare l’acqua del Tombone di San Marco, un’altra la voce del Peppino Meazza a San Siro. E poi i segnalibri: tu non sai quale miniera di rumori e rumorini ci sia soprattutto in quelli più vecchi, di seta consumata, che hanno assorbito nelle loro fibre i commenti del lettore o magari le conversazioni di casa davanti alla cena o in salotto con gli amici. In quello di una vecchia commedia di E. A. Butti ho sentito distintamente il crepitare del fuoco nel caminetto, in un altro di cotone, messo in un romanzo di Zuccoli, forse “Le cose più grandi di lui”, il frusciare di un mazzo di ortensie che la padrona di casa sistemava in un vaso. Ma le sorprese più grandi le riservano i cedolini editoriali che qualche volta trovi nei vecchi libri di Bompiani. Il pezzo più pregiato della mia raccolta, un giorno di maggio di tre anni fa mi ha restituito forte e chiara la voce del grande Valentino, che chiacchierava a una festa con Mario Soldati. Il timbro del torinese era inconfondibile e in quell’occasione fumacchiava il suo sigaro e lo rigirava tra i denti. Le sovraccoperte in genere parlano poco, un po’ perché sono quasi sempre malconce, un po’ perché sono invidiose della copertina, più vicina alle pagine e complice dei pettegolezzi. Però ogni tanto qualcosa arriva anche da lì, sono per lo più suoni di luoghi di vacanza, dove il libro è stato portato per una lettura distensiva e amena, cicalecci di donne sulla spiaggia, campanacci di mucche, sciabordare di remi. Le più chiacchierone sono quelle dei romanzi di Andrea Vitali, sembra d’essere al mercato, mi ha fatto piacere però ascoltare il rumore delle bocce, qualche campetto resiste ancora dalle parti dei laghi. E poi le fascette editoriali, quelle sono delle gran zabette, spesso riferiscono conversazioni imbarazzanti tra l’autore il proprio editor. Ne ho sentite delle belle, un giorno forse ne scriverò, si scoprirebbero parecchi altarini, ma temo non mi crederebbe nessuno».
Quel giorno Moraldo era in vena di confidenze, raccontava beato di quando ascoltava «come in cuffia sai, una sensazione meravigliosa», le confidenze di Thomas Mann nei boschi della Carinzia, «le voci della vecchia Germania dei “Buddenbrook”, perfino un pezzetto della Sonata a Kreutzer di Beethoven», o di quella volta che nei “Miserabili” si materializzò un sogno di Jean Valjean.
«Ero sul lago, una giornata d’inverno, il libro decise improvvisamente di trasformarsi in altoparlante, e dalla pagina 127 – se fossi giocatore avrei puntato al lotto – uscì un mugolio, poi un ansimare affannoso e di colpo una voce disse chiaramente in francese : “Ils ne me prendront pas, non mi prenderanno”. Poi il vento filtrò tra le pagine e la comunicazione si interruppe. Sono certo fossero parole di Valjean, braccato da Javert. Fu comunque un’emozione indicibile, e per giorni non accostai alcun libro all’orecchio, volevo tenermi dentro quelle parole, che avevo fatto mie».
Io, Guglielmo Manfredi, lettore discontinuo, scettico di natura e poco incline ai sentimentalismi, ascoltavo affascinato le parole del mio amico, pensavo all’infinito suo sapere e al meraviglioso dono che i libri gli avevano fatto, rivelandogli l’essenza del loro carattere, il fiato originale con cui l’autore aveva incominciato il suo racconto, la musica delle parole nascosta tra le pagine che solo pochi eletti possono ascoltare.
«Questo è per te, ognuno di noi ha la possibilità di ascoltare il suono dell’anima, ma lo deve fare con mente leggera, con la stessa attenzione che si ha verso un amico quando ti confida i propri sentimenti. Non sempre questo è piacevole, lo so, ci sono musiche aspre, perfino arcigne, parole grevi e maleducate, rumori che mai t’aspetteresti in certi racconti, rivelazioni imbarazzanti. La vita, in poche parole».
Leggendomi forse nel pensiero, Moraldo aveva preso un libro da un basso scaffale, vi soffiava leggermente alla sommità sollevando una nuvoletta di polvere e lo apriva come si fa con l’ostrica, speranzosi di trovarvi una perla. «Incomincia con lui, l’hanno dimenticato, troppo socialista per i suoi tempi, troppo moralista per i nostri. I suoi racconti suonano quasi tutti, ascolta “All’Ombrellino rosso”, avrai belle soddisfazioni. È un altoparlante, fidati».
Ci salutammo con un abbraccio, ritornando a casa accarezzavo di tanto in tanto la copertina del libro che Moraldo mi aveva donato, un’edizione moderna delle “Novelle” di Emilio De Marchi, uno dei suoi amati lombardi con i quali pareva avesse comunicazione diretta e immediata. Sistemai il volume sul pianoforte, in verticale e con le pagine leggermente aperte, come gli avevo visto fare.
Il resto, a sentir lui, sarebbe venuto da sé, bastava attendere il collegamento. Passarono diversi giorni, non avevo più notizie del vecchio, partito per un lungo viaggio nel Nord, dove si recava ogni anno «a ossigenare gli orecchi con i romanzi di Iperborea», e il libro si era un po’ curvato in avanti ma rimaneva sempre muto.
Lo guardavo e cercavo di capire come Moraldo stabilisse il contatto, in che modo percepisse l’iniziale respiro dell’autore, la prima nota di quella sua musica nascosta, prigioniera nella cellulosa della carta, appiccicata alle parole e pure così indipendente nell’emozionare le anime elette in grado di catturarla.
Era trascorso un mese dalla mia visita a quel tempio del sapere, il libro taceva ed io incominciavo a pensare che Moraldo fosse soltanto un visionario e la troppa lettura lo avesse distratto per sempre dalle cose del mondo e condotto in un universo di illusioni costruite parola per parola dai suoi autori prediletti. In fondo un disadattato, vittima di sé stesso e delle sue manie.
Una sera però, mentre sceglievo un disco da mettere sul grammofono, notai un lieve movimento delle pagine nel libro di De Marchi seguito da uno strano ronzio. Era il rumore della pioggia, nitido, seguito da quello di un ombrello che si apriva e di tacchi femminili in movimento sull’acciottolato, forse di una carrozza. Fuori il cielo era sereno, la strada deserta, quei suoni non potevano essere arrivati che dal libro.
Di colpo udii delle parole: «Caro Guglielmo, siedi e ascolta», era la voce di Moraldo, fresca come quella di un giovanotto, i lembi della copertina vibravano come labbra umane. «Ricorda, non meravigliartene, ciò che desideri davvero è già dentro di te».
Moraldo non ritornò dal Grande Nord, della sua biblioteca non si seppe più nulla, sembrava sparita con lui, dissolta assieme alle note della sua misteriosa musica dell’anima.
Ogni volta che voglio, però, accarezzo le pagine di un libro come gli avevo visto fare, con la grazia leggera dell’arpista, e ne cerco i suoni più reconditi, i segni che lui m’insegnò a riconoscere, quelli che gli uomini di oggi sembrano aver dimenticato.
Parole scintillanti di armonie, del respiro della natura, arpeggi mossi dalla passione come vele. Mai c’è solitudine, per chi sa amare davvero.
Alberto Frigo
Diplomato al Liceo artistico “Angelo Frattini” di Varese e come illustratore alla Scuola del Fumetto di Milano, Alberto Frigo è stato visualizer e assistente art director in diverse agenzie pubblicitarie.
Attualmente lavora come decoratore e finitore di interni e realizza raffinati trompe l’oeil.
Fotografo e pittore, appassionato videomaker, è ottimo ritrattista e autore di fumetti.