«Non fu Stefano a Binda a scrivere la lettera In morte di un’amica. Ne fu lui a scrivere l’intestazione sulla busta. E non appartiene a Binda nemmeno la grafia con cui fu scritta la frase Stefano è un barbaro assassino vergata su un foglio trovato in casa sua». Emergono nuovi dettagli dalla perizia grafologica di parte che, presentata in sede di udienza preliminare, per i legali di Stefano Binda, arrestato lo scorso 15 gennaio con l’accusa
di aver assassinato Lidia Macchi il 5 gennaio 1987 e rinviato a giudizio l’altro ieri con la stessa accusa, smonta buona parte dell’impianto accusatorio. I difensori del quarantanovenne di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia, che all’epoca dei fatti frequentava come la studentessa uccisa a soli 20 anni gli ambienti di Comunione e Liberazione, hanno più volte sottolineato le conclusioni del perito: «nessuno dei tre elementi presenta i tratti unici e il movimento della grafia del signor Binda. Gli scritti sono dunque da ritenersi apocrifi».
Su questa perizia contano Sergio Martelli e Patrizia Esposito, i due difensori di Binda. Il perito, tra l’altro, evidenzia molte particolarità che, a suo parere, escludono che sia stato Binda a scrivere i tre elementi che per l’accusa costituiscono gravi indizi di colpevolezza. In particolare il famoso foglio «ritrovato in un cassetto a casa di Binda in mezzo alle versioni di greco che il nostro assistito proponeva ai ragazzi che da lui facevano ripetizione», spiega Esposito «mostra un dettaglio interessante. La s di Stefano è scritta in maiuscolo e questo è normale. Ma è maiuscola anche la lettera successiva, ovvero la t». Binda stesso «che ha disconosciuto immediatamente quel foglio – spiega Esposito – ancora prima di sapere l’esito della perizia grafologica ha dichiarato che mai avrebbe fatto una cosa simile. È un uomo di estrema cultura e ha sottolineato più volte che non avrebbe mai scritto un nome proprio in modo così sciatto». È la stessa conclusione alla quale è arrivato anche il perito grafologo. Ora i difensori di Binda lavorano «per fare in modo che arrivi al processo da uomo libero – spiega Esposito – non c’è alcun elemento che possa giustificare a questo punto una misura di custodia cautelare in carcere». I legali avevano già chiesto la scarcerazione di Binda l’altro ieri in sede di udienza preliminare. «Ci sono tanti e tali elementi a sostegno della nostra richiesta che è inspiegabile perché Binda sia ancora detenuto – aggiunge l’avvocato – non esiste alcun pericolo di fuga. Il nostro assistito non avrebbe i mezzi economici per sostenere la latitanza, senza contare che in 30 anni non si è mai allontanato da Brebbia. Non è pericoloso e sta affrontando una prova dura come il carcere con una serenità e un equilibrio assoluti. Non ha mai cercato di fare pressioni sui testimoni, prova ne sono le intercettazioni. Anche il teste a nostro favore che lo ricorda in vacanza a Pragelato mentre Lidia Macchi veniva uccisa non è mai stato contattato dal nostro assistito. Prova ne sono i sei mesi di intercettazioni durante i quali Binda non ha mai in alcun modo cercato di confrontarsi con il teste o di spingerlo a ricordare qualcosa. Tenerlo in carcere non ha alcun senso: tra l’altro i testimoni sono stati sentiti in sede di incidente probatorio, Binda non potrebbe fare nulla, qualora ne avesse l’intenzione e non è così, per influenzarli o fare delle pressioni. In attesa dell’udienza del 12 aprile ci muoveremo in questa direzione. Far tornare Stefano Binda in libertà».