«We used to wait», eravamo abituati ad aspettare, e l’attesa, di cui abbiamo smarrito il significato, è il tema dominante della mostra di Gabriela Butti che terminerà questo pomeriggio alle 18,30 alla sala civica Bergamaschi di Induno Olona. Gabriela, che nel 2012 vinse il premio Ghiggini Giovani, è un’artista riflessiva e paziente, lontana dai cliché attuali della sperimentazione a ogni costo, che indaga dentro sé stessa prima di intraprendere il lungo cammino verso l’invenzione.
I suoi “Lightpaper”, carte luminose, sono frutto di una meditata preparazione, di un lavoro di indagine nell’insofferenza dell’animo umano, di una pazienza che avvicina i suoi atti alla filosofia orientale, così Gabriela ha pensato di unire alle opere dieci capitoli del testo sacro cinese Tao Te Ching, una serie di precetti della cultura orientale che permettono di percepire una cosa nella sua essenza.
L’artista, nata a Como nel 1985, ricava le figure dei volti e dei paesaggi «da fotografie o frame cinematografici: la superficie (prevalentemente carta lavorata e preparata con colori naturali e solventi chimici) è traforata con punte metalliche di differenti grandezze e spessori e, successivamente, retroilluminata», spiega il curatore della mostra, il giovane critico Francesco Raimondi, studi in Cattolica e idee chiare sul mondo dell’arte contemporanea.
«Ho conosciuto Francesco alla mia mostra luganese dello scorso anno, alla galleria Nelly Mya, e abbiamo subito condiviso il significato del fare arte. Nelle mie opere parlo di ciò che conosco e sperimento, il saper aspettare per dare il meglio di sé. Oggi confondiamo il desiderio-oggetto con ciò che non è appagato, l’attesa invece ti dona consapevolezza, non prevarichi sugli altri».
Gabriela propone volti attoniti, “congelati” in un’espressione né triste né lieta, accanto a paesaggi dell’anima, immobili e pieni di misteriose allusioni.
«Il tempo una volta era più lento, oggi la vita scorre a velocità vertiginosa e spesso non distinguiamo tra reale e virtuale, e siamo dominati dalla noia del tempo perso, da quella retroattiva o affannati da un tempo sospeso in cui non troviamo appagamento», spiega l’artista, che lo scorso anno ha realizzato a Singapore la personale “Facing emptyness”. «Là i giovani artisti hanno ogni cosa a disposizioni, laboratori e tecnologia, lo Stato paga la cultura e non fa mai mancare fondi. Ci ritornerò forse quest’anno, ho una galleria, la Chan Hampe, che mi rappresenta e diversi amici che mi aspettano».
Gabriela Butti prepara le sue carte con l’antico procedimento della tempera all’uovo poi, scelto il soggetto, incomincia il paziente lavoro di traforo, punto per punto crea la materia togliendola. È lei stessa a costruire la “cornice” e a posizionare i led che retro illuminano l’opera, per la cui realizzazione servono a volte due settimane e dieci ore al giorno di lavoro.
«L’attesa e il saper attendere possono favorire l’esatta percezione del reale e, di rimando, la presa di coscienza del momento presente. L’attesa, di per sé, non è l’ossessione per il futuro né un nostalgico sentimento volto al passato, bensì l’atteggiamento di chi sa vigilare e pazientare. L’essere umano è sempre – o dovrebbe esserlo – in attesa (di qualcosa, ma anche di niente)», scrive Raimondi nella brochure di presentazione della mostra.
«E senza la consapevolezza della vacuità del reale, del quotidiano, ogni attesa risulta vana e frustrante. Nei lavori di Gabriela Butti il vuoto permette alla luce di superare la materia e arrivare all’osservatore dell’opera. E la bieca forma diventa forma significante».