“Bisogna avere un mito, le aveva detto Pavese. Soltanto chi ha un mito a cui credere vive una vita degna di essere vissuta”. E , scrittrice, poetessa, “col cuore in tumulto” pseudonimo di , nata il 14 agosto 1876 ad Alessandria in Piemonte, un mito a cui credere ce l’aveva ed ebbe una vita movimentata e intensa, tra grandi amori e folti scandali, certamente degna di essere vissuta.
“Sei dell’Ottocento” la rimproverava , come rivela in Prefazione alla quarantottesima edizione del libro “Una donna” (Feltrinelli), il suo celebre romanzo autobiografico pubblicato per la prima volta nel 1906, “il poeta giovane col quale consuma l’ultima illusione. Ma, risponde Sibilla, accostando Ibsen e Nietzsche, «senza quella voce ottocentesca forse non sarei divenuta quello che sono» (Diario, 24 novembre 1940)”.
Prima di quattro figli, suo padre era laureato in Scienze e dirigeva una vetreria, la madre Ernesta era un’amante della poesia e della musica, dopo le scuole elementari frequentate a Milano, non smise mai di leggere e di arricchire in modo sempre più profondo la sua cultura da autodidatta, anche chiedendo, sposina da poco, nel gennaio 1893, consigli di lettura alla sua vecchia maestra. Sposa giovanissima, altrettanto presto lascia la casa coniugale e diventa una firma di una certa importanza: .
La lettura dei grandi poeti, filosofi e drammaturghi è fiamma del suo fuoco letterario e creativo. I suoi amori sono altrettanto appassionati come le sue letture, avventure che , nell’introduzione “Come un’ardente musica” al volume “Tutte le poesie” (Mondadori) paragona all’esule “per vocazione”, .
«La tanto declamata bellezza – spiega Raffo – di Sibilla ispira pittori e scultori: sempre più avvolta in un’aura di fascinoso divismo». La frenesia d’amore «la perseguita ovunque: una frenesia che non le permette di stabilizzarsi con un compagno definitivo (per continuare a “essere” deve continuare ad “amare” sempre nuovi amori), così come l’inquietudine esistenziale, l’andar sempre fuggendo non appaga mai la sua sete d’assoluto».
Silbilla Aleramo fu anche il primo e ultimo amore per . Come illustra in “Dino Campana biografia di un poeta”, nell’innamoramento atteso e a lungo desiderato, Campana «si ritroverà improvvisamente nudo, scoperto dinanzi alla violenza del mondo, ma soprattutto, alla sua violenza che gli sembrerà avere dimensioni cosmiche», come quando andrà in giro affermando, tra l’autunno del 1917 e il gennaio 1918 che «la colpa della guerra è di Sibilla» e che «la causa della guerra è il mio amore con Sibilla Aleramo». E il loro “viaggio chiamato amore” condurrà Dino Campana a scrivere la sua poesia d’amore più celebre: “La poesia delle rose”.
«L’amore divampò in un delirio selvaggio»: così descrisse, invece, Sibilla Aleramo l’amore per Campana, un amore nato dal primo incontro tra i due, il 3 agosto 1916, di primo mattino, in «una trattoria qualunque del Mugello». «Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come reggerò… Sei tu che mi squassi così? – gli scriveva sensuale Aleramo – Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce».
La sua vita era un continuo romanzo, che la poetessa continuava a romanzare, in prosa e in versi, come sottolinea Anna Folli, nella consapevolezza che avrebbe avuto un futuro davanti a sé, come scrisse il 5 agosto 1956 ad , che si rifiutava di ristampare alcuni dei libri della poetessa andati esauriti, pochi giorni prima dei suoi ottant’anni, in una lettera interessantissima.
«Il 14 corrente io compio ottanta anni. Stanotte mi sono destata sognando che vi scrivevo: doveva essere auna bella lettera, ma non ebbi la forza di stenderla. Vi dicevo che se fossi nata in un qualunque altro paese, avrei in quest’occasione onoranze nazionali. Perché sono un poeta, la sola donna poeta oggi nel paese, perché il mio primo libro “Una Donna” avrà a novembre cinquant’anni, perché i giovani si stupiscono ch’io, mezzo secolo fa, scrivessi per i giovani d’oggi e per quelli che vivranno il secolo venturo. (…) Io ho dinanzi a me il futuro, anche se voi non lo credete».
Quando scriveva “Una Donna”, il suo capolavoro autobiografico, «stesura dopo stesura si allontanava dalla se stessa di un tempo – sottolinea Folli – sempre più affascinata dall’immagine che si ingrandiva, sempre più convinta della propria esemplarità. É qui la radice di quell’estetismo malinteso che le procurò tanti dolori: credeva di vedere dei miti – lo spirito femminile, la donna artista – e invece li incarnava».
«Tutto – scrisse Sibilla Aleramo nel 1927 – si trasforma in cosa d’arte, perfino sul limite della morte, perfino l’allucinatoria visione della posterità».