– «Come ci sono rimasto? Male è dir poco. Ignis era Comerio, la nostra storia». Anche il basket piange per il trasferimento di Whirlpool dalle colline che dominano il lago ad Expo. Lo fa attraverso le “lacrime” di uno dei suoi figli prediletti, quell’ che rappresentava – insieme a una grande generazione di compagni – la realizzazione in carne ed ossa del progetto sociale di Giovanni Borghi.
Il cumenda “sognava” in mattoni, elettrodomestici e campioni sportivi: dall’altro ieri rimangono solo questi ultimi a narrare il passato. Perché il problema, uno dei problemi, sta proprio in una maestra di vita che ha perso gli strumenti del suo magistero: «Con questa chiusura non perdiamo solo un pezzo della nostra tradizione – afferma Ossola – ma anche la possibilità di dimostrare alle nuove generazioni chi eravamo. A Varese avevamo tutto, comprese le grandi industrie. E stavamo bene,
eravamo invidiati per il nostro modo di vivere: ora siamo diventati un po’ dei poveretti. Ma non è un male solo della Città Giardino: riguarda tutta l’Italia».
Per il più forte playmaker della leggenda di Varese il trasferimento di Whirlpool «è stato un colpo al cuore. Non discuto le esigenze che hanno portato a questa decisione, ma non mi aspettavo una smobilitazione totale». Inevitabile tanta partecipazione: l’area di Comerio ha scandito per anni la vita sportiva del territorio, con calcio e basket davanti a tutti.
Nella “meglio gioventù” dell’epoca c’era anche l’Aldino: «Pensi che il mio primo ricordo in quel posto non riguarda la Pallacanestro Varese, ma la Nazionale. Era il 1964 e passai alcuni giorni in ritiro presso la Casa dello Sportivo, costruita nello stabilimento vicino alla piscina». Tutto il complesso era, per i cestisti che resero grande Varese tra la seconda metà degli anni ’60 e la prima del decennio successivo, un punto di riferimento quasi quotidiano, soprattutto in estate: «In primis per la preparazione atletica. Partivamo dalla Casa dello Sportivo e arrivavamo fino al lago di Varese, con Garbosi dietro di noi in bicicletta a dettarci il ritmo».
C’erano i pasti: «Si mangiava dal Pagani, una specie di ritrovo dopolavoristico. Nelle grandi occasioni, però, bastava attraversare la strada per festeggiare». Già: il Bel Sit. Era quello, come se anch’esso fosse un blocco dello stabilimento, il luogo in cui la gloria sportiva si sublimava: «Da qualche parte devo avere ancora il cartoncino della cena fatta per festeggiare la Coppa dei Campioni vinta a Sarajevo. Un appuntamento fisso era anche il Natale, quando – dopo il trofeo Borghi – si andava a mangiare con tutte le altre squadre». E ancora: «Negli uffici della Ignis noi giocatori eravamo di casa – continua Ossola – Lì andavamo a discutere i nostri contratti, lì andai io dal cumenda per dirgli che non avevo più intenzione di giocare a Varese». Ah sì? «Sì, avevo paura che mi mangiasse vivo, e invece andò bene. Dopo tre anni tornai…». Oggi, per 21 mila metri quadrati di vita vissuta invece, non esisterà ritorno.