Villa Panza il giorno dopo. Il parco ha colori smorti, sbuffi di nebbia vaporosa danzano nel carpineto e rendono le aiuole polverose, prive di contorni. La farfalla ha lasciato le sue variopinte corolle, rimaste come crisalidi a testimoniare le tappe di un meraviglioso vagabondare, la scoperta meditata di luoghi altro da sé, svelati da occhi mobilissimi e curiosi.
Svaniti i clamori della mondanità, di una conferenza stampa-presentazione- confessione, in cui un uomo alto dai lunghi capelli grigi, messo in un angolo, cercava ancora di raccontare, lontani gli ospiti arrivati da fuori a mostrare compiaciuta appartenenza, la villa è deserta, le sale ascoltano il rumore dei passi, i varesini invocati dall’occhialuto Marco Magnifico hanno altro da fare, la collezione Panza con i suoi americani è ancora cosa da ricchi snob, al colle di Biumo si fatica a salire.
La provincia non smette mai il suo mantello di convenzioni, nemmeno quando arriva il sole dalla Germania, nemmeno quando sarebbe meglio tacere e ascoltare la narrazione di chi ha scelto di conoscere un altro mondo e renderlo visibile, non soltanto attraverso le immagini, ma con tutto sé stesso.
Si brilla di luce riflessa invece di assorbire quei raggi e catturarne la forza, perché dietro la semplicità delle parole, Wenders ha palesato il declino di un mondo,
di una civiltà e di un sogno, quello americano, covato da generazioni di europei dal dopoguerra in poi, un sogno terminato nel deserto, con cartelli pubblicitari arrugginiti al posto dei teschi dei bisonti visti nei fumetti di Tex Willer.
«In America ho dovuto starci vent’anni, per capire di essere profondamente europeo», ha spiegato serissimo, ma l’incontro-scontro di civiltà diverse e complementari, lontane e comunicanti, ha portato a un’alta rappresentazione d’arte, a un distillato di sensazioni che colorano le sale di villa Panza come i graffiti i vecchi muri di periferia, con un’energia dirompente e salvifica.
Quella che Anna Bernardini e i suoi collaboratori hanno messo in moto, è una macchina del tempo, nella quale ci si può accomodare su diversi sedili, mescolare epoche e stili, realtà e fantasia, perfino gli intenti degli uomini, perché Wenders e Panza mossero verso l’America con l’identica permeabilità della mente, pronta ad assorbire il nuovo e a filtrarlo attraverso le maglie di una cultura secolare.
La mostra “Wim Wenders – America” (Villa Panza, fino al 29 marzo, tutti i giorni tranne i lunedì non festivi, dalle 10 alle 18) è un viaggio nel viaggio, perché la villa è essa stessa un “continente” e le fotografie pietre miliari in un cammino prima di speranza e poi di lucida constatazione della realtà. Chi le osserva si rende conto di come il loro autore abbia voluto ammantarle di una patina fantastica, quella di una visione sospesa, di un esistere che trapassa in un altro, come se la natura ritornasse padrona, senza distruggere il suo assalitore ma compenetrandolo.
«Un luogo lontano, a giorni lo sentiamo come il monco sente l’arto amputato. Con questo di peggio: che non è illusione inutile; ma distanza colmabile, fascino immediato. Possiamo infatti metterci in viaggio. Ma mentre la meta si avvicina e diventa reale, il luogo di partenza si allontana e sostituisce la meta nell’irrealtà dei ricordi; guadagniamo una e perdiamo l’altro. La lontananza è in noi, vera condizione umana».
Il curioso è che a scriverlo, in “America primo amore”, lungo e affettuoso diario di viaggio redatto nel 1935, sia un altro regista, Mario Soldati, anche lui affascinato dagli orizzonti infiniti e dal cinema dei mastodontici studios.
«Certo, ogni lontananza è dolorosa, e nelle brevità di una patria, di una provincia. In città si desidera la campagna. In campagna, la città. Ma un grande viaggio intrapreso sui venti anni, un’emigrazione interrotta, conferisce al paese straniero che abbiamo abbandonato una lontananza religiosa, un’estraneità piena di stupori».
«Allontanarsi e avvicinarsi», lo dice anche Wenders nell’intervista che gli ha fatto Francesco Zanot, pubblicata nel catalogo della mostra, «sentirne l’odore. Distogliere lo sguardo e guardare di nuovo. La domanda chiave è: questo luogo mi parla?»
Nell’osservare le fotografie si percepisce che le parole devono essere state parecchie, di certo non tutte d’amore ma molte di dolore e malinconico abbandono, un colloquio intenso e partecipe, sfociato in colte citazioni di lontani maestri e illusioni d’appartenenza, in cui era la passione a dipingere gli orizzonti.
Così scatti come “Entire family” (Las Vegas), “Cowboy bar” (Paris, Texas) o “Wyeth landscape” (Montana) potrebbero essere scenografie abbandonate di film western, mentre le sconcertanti solitudini di Edward Hopper, le sue sfinenti attese, con il colore a farsi sentimento ed emozione sospesa, arrivano all’osservatore come un uppercut in “Street front in Butte” (Montana) “Used book store in Butte” e nello straordinario “Night hawks setting” (Los Angeles) con una Veronica Lake 1997 appoggiata al bancone del bar.
Il fotografo è un uomo di fronte al paesaggio, solo, con la mente che piano piano si svuota di tutto ciò che appartiene a un’altra cultura, allo stesso imprinting di Goethe e Schiller, e incomincia a riempirSsi di colori nemmeno immaginati, con le nuvole a salire come bolle di sapone, e i fantasmi di quelli che cercarono un domani nella prateria.
A volte, come in “Entrance” (Houston) o “Woman in the window” (Los Angeles), il landscape avvolge una piccola figura umana, ma “l’altro”, quello che racconta, rimane il luogo con il suo carico di memoria, architettonica e “morale”, i colori carichi di attese, il cielo così alto e immutabile per chilometri, la distanza che l’obiettivo tenta di ingannare e la mente si rifiuta di accorciare.
Impressiona, oltre all’eccelsa qualità delle stampe, realizzate a Londra e Berlino, l’armonia creata dalle enormi fotografie con le austere stanze della villa, una modernità che invade senza dominare ma anzi favorisce la comunione delle due culture, europea e americana, proprio ciò che Giuseppe Panza avrebbe voluto.
L’8 novembre 2001, Wim Wenders era a Ground Zero, «perché soltanto vedendo con i miei occhi quell’orrore avrei potuto contenere la profonda inquietudine», e scattava fotografie panoramiche con la sua Fuji 6×17 nel frastuono degli escavatori, in un enorme cimitero fumante.
“Silence”, c’è scritto all’ingresso della Scuderia piccola di villa Panza, dove quegli scatti sono simili a paliotti sugli altari. Come a Hiroshima e Nagasaki, il sole ha baciato di nuovo la terra dopo la ferocia degli uomini e, in un attimo, il tempo di ieri e quello di domani si sono uniti, a mostrare che il lungo viaggio non è ancora terminato.