L’amore il 14 febbraio? Lario e Marisa «Il nostro segreto è al Franco Ossola»

Cinquant’anni di matrimonio. La loro storia continua anche nelle stanze del Molina. Il senso della vita in una frase: «Guarda, ci sono i giornalisti per noi. Dammi un bacio»

– La nostra festa degli innamorati inizia e finisce in un complesso di edifici rosa collegati fra loro, con il traffico di viale Borri alle spalle ed il grigio del cielo che ti incupisce l’anima. Fuori, perché una volta dentro è tutta un’altra storia. Potrebbe suonare strano cercare tracce di san Valentino al Molina, eppure l’indirizzo è quello giusto se la tua destinazione è un amore capace di sconfiggere il tempo, la vecchiaia e la malattia, conservando la stessa purezza di quando la vita era ancora tutta davanti e aspettava solo di essere bevuta. Andiamo a colpo sicuro: ad insegnarci cosa sia davvero il sentimento che muove il mondo sono Lario Mambretti e la sua Marisa, 50 anni di strada mano nella mano.

«Parliamo del Varese?» Lo aspettavamo al varco: Lario ha delle priorità che non si possono non assecondare. Chiacchierare con lui della maglia biancorossa, peraltro, non significa uscire dall’argomento, perché un tifoso i cui ricordi iniziano nel 1936 e si rinnovano praticamente ancora ogni sabato difficilmente si può non definire innamorato.
«No signor Mambretti – rispondiamo titubanti, sperando di non deluderlo – siamo qui perché domani è san Valentino e dunque…». «Forza, andiamo da Marisa allora»

ci interrompe risoluto e tutt’altro che sorpreso nel sentir declinare il motivo della nostra visita: a 92 primavere appena festeggiate non si ha voglia di filosofeggiare, si va subito al dunque. Ed il suo dunque è sempre stata Marisa.
Per raggiungere il reparto in cui è ricoverata percorriamo rampe, prendiamo ascensori e varchiamo innumerevoli ingressi: Lario, ben saldo con il suo girello, ci fa da guida continuando a discutere di Varese, di mister Bettinelli «È un testone, ma mi piace», dell’infortunio di Neto Pereira e di quanti punti occorreranno per arrivare all’agognata salvezza. Tutto a un tratto si ferma e ci indica una signora su una carrozzella, sorridendo: «Ecco mia moglie».

Vicino ad un tavolo, immobile e sopita, la osserviamo e proviamo ad approcciarci. Marisa non parla, non sente, non vede e sembra non capire. Fra poco, però, scopriremo che il linguaggio dell’amore non ha bisogno di sensi per rinverdirsi. Lario Mambretti “parcheggia” il girello e si china su di lei: «Marisa, ci sono qui i giornalisti per San Valentino…». Le accarezza i capelli, poi delicatamente le solleva il capo: «Dammi un bacio…». Qualsiasi altra richiesta si perderebbe nell’aria, ma non quella di un gesto che non risponde ad alcuna logica perché guidato da misteri inviolabili: il bacio arriva, lungo e tenero, capace di sospendere il qui e ora, di modificare il contesto e riavvolgere il nastro della vita.

Non serve altro, ci è bastato un secondo per imparare l’amore. Non servono nemmeno i ricordi che Lario snocciola, quasi di malavoglia, nelle “pause” calcistiche cui lo costringiamo: il primo incontro sulla pista da ballo, i due anni di convivenza prematrimoniale «Mica sono scemo: volevo capire chi mi prendevo!», le nozze festeggiate sul lago, la vecchia casa di viale Belforte e le vacanze estive in Francia. Prima di andare cerchiamo di fugare l’ultimo dubbio: qual è il segreto di un matrimonio così lungo? «Semplice, uno lavorava di giorno, l’altra di notte come infermiera. Ci incontravamo solo alle partite al Franco Ossola». È il caso di aggiungere altro?