– Silvio Salmoiraghi è tra gli anti-Masterchef per eccellenza della tavola italiana: schivo, di poche parole, tutto il contrario di tanti suoi colleghi in tv, per parlare coi quali bisogna passare attraverso un ufficio stampa. Per dialogare con Salmoiraghi, occorre invece vincere la sua ritrosia, poi riuscire a distoglierlo dai fornelli, cosa non facile perché sono la sua passione e perché lui rimane tra i non moltissimi chef di grido a cucinare davvero, quando molti altri si limitano a ideare il piatto e poi sovrintenderne la preparazione.
Un gran cuoco che cucina, oggi, è una notizia. In questo è molto simile a un suo collega noto, il comasco Paolo Lopriore, del quale condivide molte idee e parte del percorso professionale. Presto si troveranno a lavorare a un quarto d’ora d’auto l’uno dall’altro: Lopriore nel nuovo indirizzo ad Appiano Gentile, che sarà aperto tra un paio di mesi suppergiù; Salmoiraghi a Fagnano Olona, dove è profeta in patria, poiché il suo ristorante stellato Acquerello si trova nello stesso edificio che vide il futuro cuoco sgambettare, bambino. Un quarantennio più tardi (è un classe 1974) viene considerato dalla critica l’interprete più raffinato della Varese del fine dining. È rigoroso e coerente, mai ruffiano. Ha appreso alla perfezione l’insegnamento del suo gran maestro, un altro lombardo, Gualtiero Marchesi. Fa parte della feconda nidiata di quest’ultimo, insieme ad altri pezzi da novanta, da Carlo Cracco a Davide Oldani, da Enrico Crippa e Pietro Leemann, da Andrea Berton fino, appunto, a Lopriore, che Salmoiraghi passava a prendere in macchina ogni mattina a casa sua, correvano gli anni 1997-98 e il comasco, sprovvisto di patente, era chef della marchesiana Albereta.
In Italia si mangia bene un po’ dappertutto, anche a casa. E allora mi piace l’idea che, quando uno viene mio ristorante, si affidi a me, vinca le ritrosie. Occorre una mentalità aperta. In cambio, provo a regalargli qualche emozione. Ma nessuno show, solo coi piatti: perché il mio lavoro è riuscire a far mangiare, punto.
Da piccolo osservavo mia mamma e mia nonna, che cucinavano bene. Mi appassionai, mi misi a studiare, fino a ritrovarmi a lavorare da Marchesi.
Marchesi ci ha inculcato l’idea di non fermarsi mai, di scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo.
Lo stimo. Ma se devo indicarne solo uno, dico Pietro Leemann, svizzero, classe 1961, già nel 1989 apriva a Milano il suo Joia, indirizzo di alta cucina vegetariana. Fu il primo locale di quel tipo ad aggiudicarsi la stella Michelin, nel 1996.
Fa molto piacere, dopo un lavoro di più di sei anni.
Certo condiziona, nel senso che costringe a stare sempre sul pezzo. Porta clienti ma anche nuove responsabilità: onori e oneri. L’importante è non farne una malattia.
C’è ancora una cucina italiana? (ride, n.d.r.).
Mi spiego. Tanti cucinano italiano, ma abbiamo perso la nostra identità. Sono passate troppe mode, ne abbiamo subito le influenze, da quella francese alla spagnola, alla nordica… Quando verrà il nostro turno?
Quando elaboreremo un nostro modello, che si rifaccia alla storia.
I piatti devono essere dei piatti. Ossia: portate vere, non mille tapas diverse. E non si pensi che sia una prospettiva al ribasso: preparare una carbonara perfetta è dif-fi-ci-lis-si-mo. Ma deve essere una carbonara, al limite rivista, e in questo caso deve essere migliore dell’originale, altrimenti non ha senso. Non siamo un popolo che ama veder mettere sul cibo i fiori con le pinzette.
Verissimo. E anche del fiaschetto di vino.
Un gran cuoco e un gran imprenditore.
Lavora tanto, con enorme precisione. L’alter ego di Lopriore, che è invece tutto istinto.
Unisce il meglio di tutti i citati. Infatti è quello che ha avuto più successo.
Credo sia tutto merito dell’influenza di Milano, e dell’Expo. Vero, oggi ci sono molti nuovi indirizzi blasonati, più nel Comasco se devo dire la verità. Ma, giusto per stare nei paraggi, voglio sottolineare l’eccellenza di un’insegna spesso poco considerata, il Ma.Ri.Na di Olgiate Olona.
Penso al latte di capra, io ci faccio una cagliata interessante. Poi il miele. E il pesce di lago.
Pasta in bianco: sono a dieta.
Pasta alla carbonara o tartare di manzo crudo.
Pasta.
Spaghetti. O trenette.
Francia.
Burro.
Champagne, non c’è partita.
La qualità al primo posto. Se mi avessi chiesto di scegliere tra champagne e barolo, avrei optato per quest’ultimo.
Non assaggiare quanto sta cucinando.
Ne ho parlato spesso male. Ha dei limiti evidenti. Ma va bene per chi ama stare in cucina non da professionista. E poi, fa scoprire certi ingredienti dimenticati.
Provare per tre mesi a lavorare in un ristorante vero: dopo due settimane uno capisce se è tagliato per il mestiere oppure no. Lo dice sempre Marchesi: ci si autoelimina.
Oltre il fornello di Marchesi. Poi La cucina del mercato di Paul Bocuse. E quelli scritti da Alain Ducasse, indispensabili per apprendere le tecniche.
Perché è troppo importante, in Italia. Per me o è un aperitivo, o un piatto salato finale, magari da abbinare, penso a un’anatra in tre servizi, dei quali l’ultimo siano dei ravioli di coscia. Oppure l’astice che preparo oggi, a Pasqua, con ravioli di pomodoro. Cucinare italiano non significa necessariamente pasta, ma anche riappropriarci di prodotti dimenticati, i pesci di lago per esempio, io ho sempre in carta persico, o bottatrice, o storione. Ma penso anche ai gamberi d’acqua dolce. O agli animali da cortile. O alla cacciagione.