Uno schizzo di vita nella natura morta. Grandina sulle macerie del Varese, come a ripulire le colpe e i peccati. Mentre la squadra corre a coprirsi la zucca nel tunnel a inizio ripresa, la curva si toglie le magliette e resta a petto nudo sotto la grandine. Chi sfida il cielo per non andare in serie C, chi scappa.
Ma a noi questi giocatori pieni di terrore non fanno schifo e, a meno che vogliano lanciare un messaggio ai dirigenti perdendo apposta, fanno pena. Evidentemente quando arrivano al campo e timbrano il cartellino, non trovano nulla per fare qualcosa in più del loro stanco dovere. Non hanno più voglia di correre perché non sanno per chi e per cosa farlo. L’allenatore (non facciamoci ridere in faccia – ci è bastata la sceneggiata delle banane –
cambiando Sottili) o i tifosi da soli non bastano per vincere le partite, neppure se sono i tifosi più grandi del mondo come quelli del Varese: né quelli del Brescia, né quelli del Novara avrebbero stretto la squadra in una morsa d’affetto simile, che poi si è trasformata in rabbia. Ma perfino quei memorabili dieci minuti d’insulti finali, con centinaia di teste e corpi avvinghiati alla rete a due metri dalla squadra che vomitavano sangue, sono figli dell’amore: quando sei morto, le provi tutte per vivere.
I tifosi o l’allenatore da soli non bastano per salvarsi perché attorno c’è un vuoto molto più grande, quasi un senso di abbandono, e questo vuoto si chiama società. In fondo anche per noi è così: non abbiamo più voglia di andare allo stadio, come loro non ne hanno di andare con convinzione al lavoro, perché ci chiediamo (si chiedono) «per chi lavoriamo?». Il senso del Varese, nella dirigenza, è scomparso: non mettono la faccia nemmeno dopo una sconfitta che è, innanzitutto, la loro sconfitta. Perché il destino di una club si compie e si scrive, prima di tutto, dall’alto. Sotto la curva il presidente Laurenza, Montemurro e Andreini ci sono andati prima dell’inizio, ma alla fine hanno lasciato da soli i giocatori, Sottili, il segretario D’Aniello, Pietro Frontini: ingiusto, inaccettabile. Tutti ci mettono la faccia, se il Varese è di tutti. Invece, no: è sempre colpa degli altri. È colpa di Sottili. Di Milanese. Della stampa. Di Gautieri. Di Bressan. Del solito capro espiatorio. Ma chi li ha scelti? Chi è il capo? Chi ha fatto male i conti, in campo e fuori?
Ha ragione Foscarini, bravissimo tecnico del Cittadella, quando dice: «Attaccare i giocatori o l’allenatore, se esiste un vero gruppo, è una risorsa positiva». Il vero gruppo lo fa la società prima che i tifosi o la stampa. E questa società non può farlo perché è assente, o ingenua, o non calcistica. Il vento che ha trascinato il Varese era fatto di chi viveva ogni ora senza sapere se esisteva un domani: ha smesso di soffiare. Il Varese si salva così: andando da qualcuno che quel vento lo conosce, facendosi spiegare cos’è. Finché c’è tempo. Altrimenti, è serie C. Ma l’etichetta dei mercenari non resterà appiccicata per sempre ai soli giocatori.
Nb – Ecco i cori della curva: andate a lavorare, veniamo coi bastoni, uscite a mezzanotte, Luca alè-Luca Sogliano, vogliamo la Primavera, vergognatevi, Leo-Leo-Leo, fate ridere, Montemurro vaffa.
Andrea Confalonieri
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