L’Italia si distingue nel panorama europeo per un’elevata quantità di ore lavorative annue, che si aggirano attorno alle 1.668,5 per lavoratore, secondo i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Questo numero è significativamente superiore rispetto a Paesi come la Francia, dove la media annua si attesta a 1.490,3 ore, e alla Germania, dove si lavora mediamente solo 1.349 ore all’anno. Questi dati tracciano l’immagine di un Paese di “stacanovisti” moderni, pronti a sacrificare il proprio tempo sull’altare del lavoro. Ma cosa comporta davvero questo impegno prolungato?
Dietro le ore in più trascorse a lavorare, si nasconde un malessere profondo. Secondo il settimo Rapporto Censis-Eudaimon, dedicato al welfare aziendale, oltre sei lavoratori italiani su dieci dichiarano che alle aziende non interessa il loro benessere psicofisico. Questa sensazione di abbandono incide sulla qualità della vita e della salute, aggravando problematiche come stress, insonnia e insicurezza economica.
Il quadro che emerge è preoccupante: nonostante gli italiani lavorino di più rispetto alla media europea, l’attenzione delle imprese verso il benessere dei dipendenti sembra essere carente. Le conseguenze di questo disinteresse aziendale possono rivelarsi dannose, poiché un ambiente di lavoro “tossico” influisce non solo sulla produttività, ma anche sulla salute dei lavoratori stessi. A lungo termine, una condizione lavorativa che trascura il benessere psicofisico rischia di trasformarsi in un problema sociale ed economico, con ripercussioni su interi settori.
In un mercato del lavoro sempre più esigente, il grido d’allarme dei lavoratori risuona forte: si chiede un nuovo modello di gestione aziendale che riconosca la centralità della persona. La salute e la serenità dei dipendenti non dovrebbero essere accessori, ma risorse fondamentali per ogni impresa che aspira a crescere in modo sostenibile.