(NB Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale)
«Tutto a posto», ovvero la storia di un avvocato penalista della zona, Massimo Della Pena, che aveva come clienti ed amici due persone dedite alle truffe. Un giorno i due decidono di organizzare una truffa di orologi di lusso e l’avvocato dà la sua disponibilità a partecipare, visto che stimava gli amici ma soprattutto il “facile guadagno”. Massimo Della Pena è il classico mammone imbranato: quando in tribunale, durante un’udienza, doveva intervenire per difendere l’imputato, iniziava a balbettare,
e anche con 3 gradi sotto zero, in preda a tic nervosi, sudava da tutte le parti e stargli vicino era impossibile. Per non parlare del suo look disordinato – indietro di 30 anni rispetto alla moda – un tipo alla tenente Colombo per intenderci. Anche la sua vita privata non era un granchè visto che in quei giorni lo aveva appena lasciato la sua fidanzata storica: rientrando a casa dove i due convivevano, si trovò davanti alla porta alcune valige e le chiese, visto che si avvicinava il loro decimo anniversario, se aveva prenotato qualche viaggio romantico, ma dopo qualche secondo di silenzio assoluto gli rispose che era lui che doveva partire perché la loro storia era giunta al capolinea. Questo per inquadrare il personaggio.
Nel giorno stabilito per l’operazione, gli viene affidato l’incarico di visionare il negozio da truffare facendo un acquisto di copertura per controllare se il materiale fosse già disponibile. «Tutto a posto» disse al telefono, uscendo dal negozio, ai suoi complici che aspettavano l’ok per mandare a ritirare gli orologi ordinati. Dopo qualche metro, tutto fradicio e sudato, Massimo della Pena si ritrova accerchiato da poliziotti in borghese che insospettiti lo fermano. Gli chiesero cosa ci facesse incollato alle vetrine del negozio e rispose che voleva comprare un piccolo ciondolo per la mamma, mostrando il tesserino da avvocato. Peccato che nei giorni precedenti il negoziante, sentendo “puzza di bruciato” su quella trattativa, aveva segnalato il tutto al commissariato di Polizia, e questi stavano monitorando il negozio in attesa che si fosse fatto vivo qualcuno per quella compravendita. Si seppe poi che il “nostro” non ebbe il coraggio di entrare nell’orologeria ma si mise letteralmente “appiccicato” alle vetrine del negozio cercando di vedere se gli orologi erano pronti per la consegna, ma dato che la sua mole imponente non passava inosservata, quando il titolare del negozio lo vide facendogli segno di entrare lui si spaventò pensando bene di darsela a gambe. In commissariato, “messo alle strette” raccontò nei minini dettagli l’operazione truffaldina che si andava a compiere. Venne portato in carcere in attesa di convalida per tentata truffa e in quei tre giorni di galera la storia andò su tutti i giornali e la madre che aveva perso le sue tracce scoprì dove era suo figlio.
Quando arrivò in sezione ormai si era sparsa la voce che quel “gabibbo” sudato era un penalista e per i tre giorni che passò in carcere dovette preparare istanze e ricorsi per tutti i detenuti che non avendo possibilità di pagarsi un avvocato di fiducia se ne trovarono uno direttamente in cella. E ancora oggi, in attesa della conclusione del processo, quando i colleghi lo incrociano in qualche aula del tribunale gli chiedono «avvocato, che ore sono al suo Rolex?».