Serviva la perfezione e la perfezione non c’è stata. Quando il tuo avversario tira con il 51% da tre punti. l’unica cosa che puoi fare, commentando una sconfitta, è andare ad analizzare la qualità di quei tiri presi e messi con una puntualità quasi svizzera, con l’obiettivo di capire se in quella percentuale che stenderebbe anche un toro non ci sia la complicità della difesa.
La risposta è sì: un po’ c’è stata la complicità di Varese nella gragnola di triple che Sassari ha fatto cadere sulla testa degli uomini di Caja. C’è stata nel passare troppo spesso dietro ai blocchi, lasciando quel metro (e quell’attimo) di spazio a giocatori non abituati a farsi pregare (Bell e Stipcevic in primis); c’è stata anche in una zona tutto sommato efficace, che però ha talvolta lasciato troppa libertà sugli angoli del campo ai tiratori sardi. Le critiche alla tenuta difensiva biancorossa, però, si esauriscano qui: il taccuino ha annotato anche tanti meriti degli uomini di Pasquini, assai bravi a girare con pazienza e perizia la palla e altrettanto valenti a segnare tutti (tutti…) i canestri da oltre l’arco decisivi, anche quando egregiamente contestati da una retroguardia biancorossa che si è spesa, al di là dei singoli errori, senza lesinare impegno e cuore.
In un PalA2A a tratti emotivamente conquistato dall’anima ritrovata della Openjobmetis (un’anima che produce lotta e sacrificio) si consuma l’ottava sconfitta di campionato delle ultime nove gare, un insuccesso che lascia Varese sul fondo della classifica, solo in parte temperato dai contemporanei tonfi di Cremona (a Pistoia) e di Pesaro (a Brescia). Contro la Dinamo finisce 76-83 un match vibrante, interpretato dalla nuova Varese senza timore reverenziale nei confronti di una squadra più quotata, più talentuosa, più profonda e con una fiducia granitica nei propri mezzi.
Sassari è un valzer a cui la Openjpobmetis non si sottrae, forte della credibilità collettiva donata dall’arrivo del nuovo coach: per 37 minuti le due formazioni si colpiscono e si rincorrono, con prevalenza di ospiti a cui tuttavia i padroni di casa non lasciano mai e poi mai la possibilità di fuggire, grazie a canestri e difese in grado di rimettere perennemente la posta in palio.
Un atteggiamento che fa spellare le mani a chi per mesi ha solo fischiato, una sinfonia di un’orchestra che – sempre per 37 minuti – riesce anche a mascherare le mancanze individuali, ben sottolineate, invece, dal tabellino all’ultima sirena.
La nuova Varese gioca alla pari con il Banco di Sardegna anche se ha un Maynor complessivamente insufficiente, impalpabile in attacco (6 punti e 5 assist) ed eternamente violentato in difesa (anche da un De Vecchi che non fa del talento offensivo la sua arma migliore). La nuova Varese combatte, minuto dopo minuto, in contumacia Eyenga (solo 10 punti), cancellato da Carter e soci fino all’ultimo quarto, nel quale il congolese tenta di fare ma riesce soprattutto a disfare (tre palle perse decisive e una conclusione troppo affrettata sul 74-77 a 3’
dalla fine). La nuova Varese resta in partita nonostante non riesca praticamente mai a correre, nonostante faccia fatica a trovare sofismi a metà campo, messa in difficoltà dal fisico e dall’intensità di Sacchetti (che prova davanti a papà Meo…) e sodali. Resta in partita con la puntualità di Johnson (14 punti, quasi una sentenza fino ai 10 minuti conclusivi), con le fiammate di un redivivo Kangur (16 punti, 8/9 da due), che diventa il terminale di una mole di gioco gagliarda nonostante le difficoltà (l’estone non si mette mai in proprio: segna perché la palla gira bene…). Resiste con la freschezza di un ritrovato Avramovic, con la “garra” di Ferrero, con la voglia di Anosike. Con, in sintesi, l’atteggiamento giusto.
Si riparta da esso e da tutti quei progressi ammirati nell’ultimo mese: la Varese di dicembre aveva sprecato quattro mesi di stagione senza costruire nulla, non era nemmeno una squadra. La Varese di gennaio, la Varese di Attilio Caja, lo è, nonostante sia modesta, nonostante i risultati non siano cambiati. Ancora.