Ci resteranno impressi i cecchini del piattello, i salti felini dei pallavolisti, la leggiadria sincronizzata delle sirene, la grinta del judoka, le acrobazie dei tuffatori. Delle Olimpiadi di Rio dimenticheremo presto il numero di medaglie portate a casa dagli azzurri, così come il loro colore. A riecheggiare, invece, saranno le emozioni. Non solo la gioia e l’euforia dei vincitori, ma anche le lacrime degli sconfitti, le smorfie della fatica, i visi stravolti, il petto scosso dal respiro affannoso.
E il compito del cronista, come sempre, sarà quello di visitare palestre e piscine, per vedere quanto di quella suggestione collettiva si tradurrà in iscrizioni. Quanti ragazzi sceglieranno una delle discipline ammirate in questo lungo e spettacolare mese di eventi sportivi. Perché lo scopo dei Giochi è anche questo: sdoganare mediaticamente nicchie atletiche normalmente ignorate, o relegate a orari improponibili ed emittenti minori. Del resto, da parecchi anni sono proprio gli olimpionici che regalano al Belpaese le maggiori soddisfazioni. Non è un tema nuovo. Ogni 4 anni l’opinione pubblica torna a confrontarsi con lo squilibrio economico e culturale che, in Italia, privilegia il calcio rispetto a qualunque altro sport. Ma qui non si tratta di boicottare l’ineguagliabile magia del pallone. Si tratta, al contrario, di non muoversi col paraocchi, di non scegliere secondo canoni modaioli. Si tratta di informarsi, interrogarsi, fare (e farsi) qualche domanda, interpellando anche noi stessi, magari per conoscerci e capirci un po’ di più. Pazienza se, in noi, non alberga un particolare talento. Drammatico, invece, avere dentro di sé un campione e tenerlo prigioniero.