11 settembre: quindici anni fa. Per noi, che l’oceano divide dall’America, era il pomeriggio. Arrivarono sconvolgenti notizie, mischiandosi al fragore del tanto che si fa e dice in un pomeriggio di lavoro, studio, faccende domestiche, svago. Seguì lo sbalordimento. Poi l’orrore. Più le voci si levavano concitate, nelle trasmissioni radiofoniche/televisive non ancora sconfitte da internet, e più cresceva il silenzio di chi ascoltava e vedeva. La memoria residuale racconta del gelo che calò attorno alle radio,
ai televisori, a noi. Fu il mutismo del rifiuto a credere. Non era né immaginabile né praticabile un’incursione terroristica di tal genere. Invece lo era. Conoscemmo un volto della violenza sugl’innocenti ignoto nella contemporaneità, ma che ci sarebbe diventato, poi/purtroppo, familiare. Col passare del tempo quel profilo ha assunto differenti sembianze, rappresentative di realtà che alla strage delle Twin towers sono apparentabili, se alla data assegniamo il significato di simbolo del male. Alcune maschere tragiche: l’ecatombe dei profughi nel Mediterraneo, la morìa di affamati e assetati in Africa, le vittime dei regimi tirannici resistenti alla democrazia globale, i soprusi/delitti maschili verso donne e bambini, l’infiltrazione criminale nella società civile e politica. 11 settembre: oggi, ieri, domani. Un pomeriggio di chiasso allegro che diventa una sera di doloroso stupore. Pensiamo che il peggio per l’umanità sia passato, e invece il meglio del peggio abbatte con puntualità le torri delle nostre certezze. Costringendoci a ricominciare da tanti Ground zero.
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