Il giudizio sui Giochi di Rio si colloca a metà tra un temuto disastro e un’Olimpiade rutilante, rimasta solo nei sogni. In fondo, ha funzionato, con una media accettabile di disagi in considerazione della particolarità di un Paese abituato a una gestione tutta sua del tempo e del metodo. La scelta è stata di fare di Barra da Tijuca, dove c’era ai tempi il circuito di Jacarepaguà, il cuore dei Giochi. L’Olimpiade di Rio, dunque, è
stata in realtà l’Olimpiade di Barra, con la necessità di spostamenti anche nell’ordine dell’ora e più per raggiungere, mediante le navette, l’area “downtown” dove c’erano non pochi siti e non pochi eventi. Una scelta presuntuosa: forse sarebbe stato meglio tenere tutto a Barra, lasciando a Rio la magia del Maracana per il calcio e le cerimonie, oppure trovare un’area da bonificare tra centro e immediati dintorni, insomma qualcosa di simile all’Expo rispetto a Milano. Lo sforzo è stato enorme e probabilmente ha drenato risorse per tanti aspetti, a cominciare dalla rifinitura dei dettagli negli impianti, nelle parti comuni (visti ancora dei cantieri aperti) e nell’area del centro stampa: pur di completare, si è fatto in qualche modo e, di sicuro, in questa fretta rientra anche il fatto che rispetto al solito si sono visti meno pannelli, meno stendardi, in una parola meno “colore”. Saranno serviti i Giochi alla causa brasiliana? Lo dirà solo il tempo. La cosiddetta legacy, o eredità olimpica, a volte ha funzionato (a Barcellona, ad esempio) e tante altre no. Di certo il Paese ha bisogno che questa dei cinque cerchi non sia stata una cattedrale nel deserto.