Sul lago d’Orta si svolge sino a Ferragosto un bizzarro evento. Dieci maratone di fila, una al giorno, 42 chilometri e 195 metri ogni 24 ore. In gara runners da tutt’Italia e dall’estero. Soltanto, e ammirevolmente, atleti/superman? Fors’anche, e bonariamente, incoscienti/matti. Perché il loro fisico patirà la stravolgente fatica, ne avranno danni muscoli tendini e articolazioni, andrà in allarme l’apparato cardiocircolatorio, suonerà l’emergenza della tenuta nervosa. Vale la pena di praticare l’estremismo sportivo? Certo che no,
come ha scritto su questo giornale Roberto Gervasini, ex campione dei 1500 metri. Realismo e buonsenso dicono: meglio la moderazione. D’accordissimo. Però in ogni idea scapestrata si cela/scova un che, se non di saggio, almeno d’istruttivo. Ovvero una lezione. Nel caso accennato, è la seguente: impegnarsi in un’impresa ai confini dell’impossibile significa avvertire nel cuore -o nell’anima, a piacere- il fremito del coraggio, l’audacia anticonformistica, l’energia del vitalismo. Doti morali, virtù antiche, beni eterni. Ne dispone chiunque, ma solo alcuni li sanno/vogliono ripescare dall’asse ereditario ancestrale e trasformarli in realizzabile utopia. Quando così interpretate, avventure di profilo rischioso/balordo rivelano uno zic di simbolismo positivo. Cioè: se nelle incombenze quotidiane mettessimo la consapevole follia dei maratoneti del lago d’Orta, cambieremmo per davvero il mondo e noi stessi. Invece spesso rifiutiamo d’allungare il passo da tapascioni esistenziali: lento/uniforme, strascicato/greve. E restiamo, il mondo e noi stessi, senza traguardi da sognare.