, professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università dell’Insubria sull’argomento del fine vita, si rifà all’opinione espressa dal filosofo inglese David Hume in un saggio sul suicidio.
«Nessuno può sostituirsi al singolo a proposito del mantenimento o meno della propria vita e questo è un principio basilare della modernità». Secondo il filosofo varesino «confrontando tra loro le legislazioni degli stati europei e valutando se la libertà di scelta della persona sia tutelata o meno, risulta evidente che nel nostro paese essa venga indegnamente calpestata. In Italia il singolo è del tutto privato della libertà di scegliere».
Il problema sta tutto nel mondo della prassi. «Se riteniamo che la nostra vita non ci appartenga, allora è chiaro che non possiamo disporne e quindi scegliere». Eppure, «Cos’è la libertà? È libertà di scelta. Dovrebbe esserci una cultura curvata alla tutela dell’individuo: bisogna porre a centro la persona».
Noi, però, viviamo in una gabbia culturale, frutto di una pesante eredità storica con cui dobbiamo fare i conti. «Guardiamo a tre episodi significativi del nostro passato. La scienza nasce in Italia ma noi abbiamo arrestato il più grande scienziato, Galileo. Il nuovo sistema di produzione industriale ha le sue origini tra la Toscana e la Lombardia, ma deve espatriare nell’Inghilterra vittoriana per avere successo. Quando in Europa esplode la Riforma protestante, da noi si impone la Controriforma,
che imprigiona la libertà di coscienza. Di fronte a tutto ciò, il poeta inglese John Milton rimase profondamente colpito e ci definì un paese profondamente papista e illiberale. Ebbene, lo siamo ancora oggi. Per ragioni storiche e culturali la nostra cultura non va nella direzione di valorizzare la libera fioritura dell’individuo, ma lascia spazio allo Stato, alla Chiesa, al Partito che pretendono di guidare la società “per il suo bene”. Siamo ancora una cultura pre-moderna». A queste dure parole si accompagna però la consapevolezza che la società civile sia più avanti rispetto alla classe politica,che pure fatica a scrollarsi di dosso.
Di tutt’altro avviso l’avvocato , presidente dell’Associazione Giuristi per la Vita. «Stiamo diventando una società sempre più cinica, aprire a misure come l’eutanasia sarebbe molto pericoloso. Prendiamo quello che è successo in Olanda o in Belgio, dove questa pratica è legale da tempo. Quando si fa passare il messaggio culturale che è possibile eliminare qualcuno, ecco che si presentano i depressi, poi si passa ai bambini e infine a casi di persone perfettamente sane che chiedono di morire senza ragioni specifiche».
Gianfranco Amato rispolvera Aristotele. «Viviamo in una società in cui si è completamente persa la dimensione comunitaria. Non possiamo considerarci delle isole. Non è indifferente che qualcuno ci sia o non ci sia. Questo bisognerebbe dire a Dj Fabo: la tua vita non è insignificante per noi. Oggi ci troviamo davanti ad uno scontro, tra chi ritiene che l’uomo si autodetermini, e quindi sostiene il primato del singolo, e chi invece, come me, crede che l’essere umano sia un animale sociale. Rispetto alla sofferenza altrui, la risposta non può essere quella di indurre il debole a porsi di lato, ad auto-scartarsi».
C’è poi la questione del testamento biologico, che secondo l’avvocato ha due gravi difetti, in quanto «priva il medico della possibilità di offrire la propria valutazione e lo costringe a eseguire un ordine anche contro la sua volontà. E poi, non si può ignorare il fatto che l’autore di un testamento biologico, trovandosi in condizioni drammatiche, possa anche cambiare idea rispetto a quanto aveva stabilito da sano. Per questo lo Stato deve tutelare la vita dei cittadini, anche contro la loro volontà. È come quando ci obbliga mettere la cintura di sicurezza, e ci multa se non lo facciamo. È un modo salvarci la vita».