«Lotto per la vita contro la burocrazia. E oggi vi chiedo: non ditemi un altro no»

Un anno fa Deborah Iori, che soffre di una malattia rara e invalidante, era riuscita a curarsi negli Usa. Tutto merito di una raccolta fondi. Ma i soldi stanno finendo e l’Asl non le riconosce i trattamenti

– Deborah in lotta per la vita: a Dallas trova la terapia che può salvarla. Ma si ritrova prigioniera di una burocrazia kafkiana che deve spingere chi di dovere a una riflessione sui metodi di gestione della sanità.
Perché, dopo l’inizio della terapia che le ha cambiato la vita (davvero e qui parliamo di diritto alla vita) l’Asl, seguendo le direttive regionali, non le concede finanziamenti per proseguire le cure negli Usa, giudicandole evidentemente inutili, ma dall’altro ne certifica l’efficienza, attestando il netto miglioramento della quarantenne di Sangiano dopo il primo step della terapia tanto da toglierle pensione di invalidità, accompagnamento e da restituirle la patente.

Le sue condizioni di salute, sino a qualche mese fa, erano tali di far sì che fosse giudicata inabile alla guida. La vicenda è complessa come solo una storia italiana può essere e si snoda attraverso vuoti normativi a livello nazionale che demandano ogni competenza alle Regioni. Insomma: ognuno faccia ciò che gli pare, con buona pace del malato in lotta per la vita. , la cui storia a marzo dell’anno scorso fece il giro d’Italia

scatenando un’ondata di solidarietà eccezionale, oggi scopre di essere residente nella regione sbagliata. La donna soffre di una malattia estremamente rara e altamente invalidante che costringe ad una vita-non-vita sino alle estreme conseguenze. La malattia in questione si chiama “Sensibilità chimica multipla” o Msc, una condizione patologica assimilabile all’elettrosensibilità: si intossicano le cellule e peggiora di giorno in giorno. Malattia non riconosciuta a livello nazionale tanto che ci si rimette ai governi regionali.

Le amministrazioni di Puglia, Sardegna e Veneto, dove si sono registrati casi analoghi a quello di Deborah messi di fronte alla sola via d’uscita da un calvario lungo una vita hanno detto sì sovvenzionando le cure nel centro di Dallas (sfortuna vuole, infatti, che gli unici centri specializzati nel trattamento efficace di questa patologia siano a Los Angeles, Londra e Dallas: quest’ultimo è il più specializzato), l’Asl varesina, seguendo le direttive del Pirellone, ha invece detto no alla quarantenne di Sangiano. A ricapitolare l’intera vicenda è Matteo, il figlio appena ventenne della donna, che con il fratello Davide e il padre Federico è al fianco della madre in questa lotta “per la vita”. Matteo parte dall’inizio: «Questa malattia porta a gravi degenerazioni muscolari. Mia madre non camminava, aveva continue crisi respiratorie, doveva vivere in una camera trasformata in campana di vetro perché il suo organismo non è in grado di smaltire gli elementi con i quali entra in contatto». La famiglia di Deborah, l’anno scorso, ha dato il via a una raccolta fondi per il pagamento delle cure salvavita negli Stati Uniti: «Sono stati raccolti 220mila euro – dice Matteo – che abbiamo utilizzato con il contagocce, risparmiando sulla spesa quando assistevamo la mamma a Dallas, per non perdere nemmeno un euro destinato alle cure».

Quando Deborah è partita nel maggio scorso per Dallas pesava 38 chili, non mangiava più da un anno (nutrendosi attraverso soluzioni liquide) a causa dell’intolleranza verso ogni genere alimentare, e aveva meno di un mese di vita. «Il trasporto costò 85mila euro – prosegue Matteo – perché per mamma è servita un’aeroambulanza. Al termine della terapia è tornata con me su un volo di linea in classe economica. Oggi riesce a mangiare alcuni alimenti e a camminare. Per la maggior parte delle persone sembrerà poco, ma posso garantire che per mia madre è un miglioramento straordinario della qualità della vita».

La prima volta che la famiglia di Deborah chiese il sostegno del sistema sanitario lombardo non aveva risultati da esibire. «C’era la certificazione del professor del Gemelli di Roma, il massimo esperto italiano di questa patologia, che affermava come in Italia non vi fossero strutture adeguate per curare mia madre – dice Matteo – Indicando i centri negli Usa come unica soluzione». Allora questo non bastò. «Una volta tornati, con tutta la documentazione clinica che attestava il miglioramento di mia madre e la necessità di eseguire una terapia di mantenimento per altri tre anni, ci abbiamo riprovato. Questa volta avevamo le prove che si trattava del diritto alla vita di mia madre. Ci hanno risposto di nuovo no. Direttive regionali». Domani Deborah ripartirà per Dallas; questo viaggio è l’ultimo che si potrà permettere grazie al denaro raccolto grazie alla generosità di tanti. “Chiediamo che gli enti nati per tutelare la nostra salute, ci aiutino. Questa volta non può essere un no. Ne va della vita di mia madre».