Faceva vendere paccate di biglietti, al botteghino dello stadio, il mago Melvino alias Peter Melvin Mallory from New York; e da “sold out” sarebbe stato in teatro o al cinema, solo che di sue peculiari doti istrioniche e fisiche si fosse accorto un regista d’impronta autorale, un Josep Joan Bigas i Luna da Barcellona o un Marco Pozzi da Venegono Superiore, tal è.
Ieri a Milano, quasi che la sua fosse un’ultima recita e non l’addio – che è sempre triste, solitario y final, potendosi solo confidare in un equo risarcimento nell’Aldilà – dall’orbe dei senzienti, i compagni d’un tempo scelsero di pagare il biglietto d’ingresso, una manciata di euro “pro capite”, posto unico sulle panche della chiesa titolata al Corpus Domini, ed in tal modo fu raccolta una cifretta forse sufficiente (lo si saprà fra qualche giorno) per coprire il residuo delle spese per il funerale. E sissignori: un cuscinetto di fiori, una foto al massimo ingrandimento, una maglia “d’antan”, tutte cose che commuovono; ma anche pragmatismo, in quei veterani del football di casa Frogs, e se c’è un’esigenza si mette mano al portafogli.
Qui l’esigenza si manifestò, volendosi che le esequie avessero luogo in Italia e non dopo un rimpatrio negli States, rimpatrio al quale il de cuius – in quanto già militare Usa in Europa, quando lo si conobbe era di servizio alla “Carlo Ederle” di Vicenza e faceva autentici sfracelli con i Blue Knights – aveva diritto. Ergo, “tam-tam” e fuori i ghelli; come recita l’Iffland Augusto Guglielmo si sa essere poeti, ad un tempo, ma per qualcuno le cose camminano prosaicamente.
Non diremo allora che al congedo da Peter Melvin Mallory, storico wide-receiver con i Frogs all’epoca del primo SuperBowl vinto (Rimini, luglio 1984, ed eravamo tutti in campo ebbri di gioia), non diremo che al congedo da Melvin c’era una miriade di persone; e non lo diremo perché le miriadi, chi avesse gusto a contare, erano almeno tre.
I familiari, a lungo misuratisi nell’opera di restare accanto al bionico tiramolla che da atleta incassava colpi stendibufalo senza batter ciglio, e che una crisi coronarica (il cuore pompava ormai al 15 per cento) si portò invece via; gente comune che si era affezionata a quell’eccentrico americano, incrociandolo di spesso sui sentieri del Parco Sempione, ed ammutoliva ammirata vedendo i pettorali sixpack di un ventenne nel corpo di un uomo di mezza età; ed il popolo dei footballari, very normal people, prevalenti i già Frogs che sono Frogs forever basta che si sia indossata per una volta quella divisa. Gli Asphalters, i McConkeys, la V-squad e la Famiglia, sezioni interne alla storica macchina da guerra che infilò sei titoli nazionali ed un EuroBowl; e, in spirito, ogni stormo di vecchie e nuove generazioni.
Di quel che si vide in chiesa, se si permette l’è inscì e se non si permette l’è inscì l’istéss, qui non raccontiamo perché Peter Melvin Mallory era schivo (dannazione, fratello: se ti fossi fatto sentire, se tu avessi fatto capire che la salute ti stava abbandonando, anziché sparacchiare sempre che «Ok ok ok all right»…) e di sé faceva mistero, ed insomma non avrebbe gradito, a parte il fatto che cattolico era e lodava il Signore e che si sarebbe ritrovato nel Vangelo di Matteo proclamato dall’ambone.
Si deve dire, invece, del maestoso tributo reso all’estinto nel lento transito del feretro sul fondo di corso Sempione, là dove furono la redazione milanese di “Tuttofootball” e quella di “Touchdown”, entrambe testate degli Anni ’80, la prima delle quali concepita da un bustocco con il supporto di un varesino e con l’appoggio di un cassanese che aveva uno zio editore a Brescia, e così nacque l’epopea. Onore a Melvin, e così sia.