A Malnate è ormai ribattezzato l’uomo del deserto. E non potrebbe essere altrimenti considerando la portata dell’impresa, a maggior ragione se il protagonista della vicenda ha la non più giovanissima età di 67 anni. L’alpinista , entrato già da tempo di diritto tra le leggende sportive malnatesi per via di alcune scalate epiche, ha scritto un nuovo capitolo in fatto di conquiste estreme. L’impresa in questione è quella compiuta alla recente Marathon des Sables. Una traversata del deserto meridionale marocchino, affascinante e suggestiva quanto terribile ed estrema.
Riboldi ha domato il Sahara in circa 60 ore, coprendo le sei tappe previste (l’ultima di 8 chilometri ha solo fini sociali) secondo il programma della competizione. Ha divorato i 243 chilometri previsti stringendo i denti e alla fine ha tagliato un traguardo che ha tanto il sapore dell’impresa e non solo quello della sabbia che ogni giorno ha letteralmente ingoiato tra le dune del deserto. «Il mio mantra – dice Riboldi – era la regola dell’alpinista: rallentare sempre ma non fermarmi mai. Ci sono alcuni ricordi indelebili. Il vento del deserto e i suoi mulinelli, che non ti lasciano mai. Essere sempre immerso nella sabbia. La polvere dappertutto, persino tra i denti. Il caldo insopportabile e la gola sempre secca. Avevo il pettorale numero 1219 e per tenere impegnata la mente contavo ogni volta 1219 passi prima di fermarmi per bere e mangiare qualcosa».
Ogni atleta ha dovuto provvedere al proprio kit: l’organizzazione passava solo l’acqua. Ciascuno, quindi, è partito con il proprio zaino che si alleggeriva con il passare dei chilometri e delle tappe. «Mi ripetevo sempre di rallentare perché il giorno successivo ci sarebbe stata una tappa ancora più pesante». La più lunga è stata quella da 86 chilometri, percorsa da Riboldi in 25 ore filate. Ma il deserto non è stato solo un avversario: «Alla fine di quella tappa –
ha raccontato – c’erano ad attenderci una quarantina di sdraio. Mi sono fermato a guardare un cielo di una profondità e di un’intensità mai viste. Ero in un altro mondo». Ma gli “avversari” sono tanti: «Il mio vicino di tenda – ha ricordato Riboldi – è stato punto da uno scorpione. Mi ha raccontato di aver sentito come una lama di coltello rovente conficcata nella gamba. La mattina dopo, pur un po’ stordito, è ripartito. È bello il senso di unione che si viene a creare tra atleti provenienti da tutto il mondo».