Venticinque anni fa, il 4 marzo 1989, Varese viveva un sogno che molti ancora oggi ricordano come tale, malgrado a volte la realtà offra bruschi risvegli. Venticinque anni fa Varese scriveva il proprio nome, per la seconda volta in tre anni dopo l’apoteosi dell’87, nell’albo d’oro del campionato italiano di hockey su ghiaccio, un’impresa che ha lasciato grandi ricordi ma anche inevitabili rimpianti, perché a quel trionfo seguì, negli anni successivi, un declino al quale solo la passione, la determinazione e la voglia di chi ancora oggi difende storia e tradizione dei Mastini, ha saputo impedire di prendere il definitivo sopravvento.
«Forse se avessimo vinto un terzo scudetto nei primi anni ’90, e l’occasione devo dire che poteva esserci, le cose non sarebbero andate così» esordisce Davide Quilici, mastino di allora e di oggi, in quanto presidente dell’attuale Hockey Club Varese, nato dalle ceneri della vecchia, gloriosa società.
«Il rimpianto maggiore credo resti quello, perché degli investimenti importanti fatti nell’epoca d’oro alla fine non è rimasto quasi nulla. Si poteva fare di più, soprattutto per l’impianto, il cui destino è tutt’ora incerto».
Una squadra costruita per vincere, quella guidata al successo da Bryan Lefley, poi tristemente scomparso alcuni anni dopo in un incidente d’auto.
«Sapevamo di essere i più forti, la squadra era stata pianificata per quello e da parte nostra c’era piena consapevolezza della nostra forza» ricordano Matteo Malfatti e Flavio Faré, attaccanti di quel mitico roster.
«Il primo scudetto, due anni prima, era stato un’impresa leggendaria – aggiunge Quilici -. Il secondo no, fu voluto e arrivò al termine di un campionato straordinario».
Inevitabile quindi che l’immagine di quel trionfo riempia ancora oggi il cuore di chi quelle emozioni le ha vissute in prima persona. «In finale contro il Fassa chiudemmo la serie in casa e fu grande festa – ricorda Malfatti -. Il clima, l’atmosfera di quel giorno credo siano indimenticabili».
Jim Corsi, un portiere, una leggenda. Brad Shaw, un campione, che ebbe poi gloria anche in NHL. E ancora Pat Micheletti e Cesare Carlacci. Questi, a detta di tre protagonisti di quella grande avventura, gli artifici principali di quei trionfi. E poi il pubblico varesino, che riempiva il Palalbani trasformandolo in un Maracanà invalicabile per qualunque avversario (poteva contenere 3.000 spettatori, prima che la capienza venne ridotta, ma in alcune epiche partite ne entravano fino a 4.000): la leggenda narra ancora che il pubblico dell’hockey, molto più di quello del calcio e del basket, sapeva fare la differenza per i Mastini, fondendosi in un fuoco giallonero capace di bruciare chiunque.
«Ancora oggi lo zoccolo duro resiste e anche i tifosi dell’epoca che magari non vengono più al palaghiacchio, ma continuano ad amare questo sport come allora – spiega Quilici -. E c’è tanta gente nuova, che fa di Varese una delle realtà più seguite del panorama dell’attuale serie B».
Certo, la magia di quel momento è difficile da ricreare, forse impossibile, anche alla luce della latitanza delle istituzioni e della crisi economica, che sta tormentando anche gli sport più popolari. «Anche la federazione ha le sue responsabilità, se pensiamo che il nostro grande avversario dell’epoca, il Bolzano, oggi milita nel campionato austriaco» sottolinea Malfatti. «L’hockey in Italia non ha saputo cogliere l’attimo fuggente dopo il Mondiale ospitato in casa nel 1994 – aggiunge Faré -, ma la realtà è che oggi anche le grandi società di calcio sono in difficoltà. Trovare un magnate disposto a investire è difficilissimo e la legge sugli stadi, indispensabile per competere con i club europei, non c’è ancora».
E a proposito di società, come se la passa oggi l’hockey varesino? «Sopravvivere è una lotta, abbiamo un bilancio ridotto all’osso e i nostri giocatori della prima squadra sono ragazzi cresciuti nel vivaio, abituati a procurarsi tutto da soli» spiega il presidente Quilici. «Eppure i giovani si avvicinano ancora al nostro sport, malgrado le spese che le famiglie sono chiamate ad affrontare per dotare i figli dell’attrezzatura necessaria».
Ma un’eventuale ritorno nella massima categoria, cioè a casa, è da considerare pura utopia? «La verità è che non ce la potremmo fare, la serie A richiede investimenti sulla squadra, ma soprattutto sulla struttura che ci ospita, che non sarebbero sostenibili» confessa Davide Quilici.
Perché anche chi in campo e da dietro una scrivania lotta quotidianamente per difendere la storia e la tradizione dei grandi Mastini non può, purtroppo, non fare i conti con la realtà.
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