BUSTO ARSIZIO Matilda Borin, oggi, avrebbe avuto 5 anni. Una bambina bellissima: cappello azzurro calato in testa, riccioli chiari che sfuggono ad ogni disciplina. Due occhi che ti rubano il cuore al solo vederli. E che oggi ti guardano da una tomba nel cimitero centrale di Busto Arsizio.
Quella bambina oggi avrebbe frequentato l’ultimo anno d’asilo e, a settembre, avrebbe iniziato la scuola. Conti pratici che ogni madre calcola; ma che, invece, la sua di mamma, Elena Romani, hostess di 34 anni di origine legnanese, oggi non può permettersi. E non se li si può permettere nemmeno Simone Borin, bustocco, rampollo di una famiglia nota in città, nonché padre di Matilda, che ai funerali ha commosso tutti con il suo voler stare appresso appresso alla bara della sua piccola.
Domani in corte d’assise d’appello a Torino avrà inizio il processo di secondo grado a carico di Elena: la madre era stata accusata dell’omicidio della piccola, strappata alla vita con un calcio a Roasio (provincia di Vercelli) all’interno del casolare di proprietà di Antonio Cangialosi (allora compagno di Elena dopo la separazione dal padre di Matilda). Elena è stata assolta con formula piena “per non aver commesso il fatto” in primo grado. L’accusa, nonostante l’avvocato difensore della hostess Tiberio Massironi avesse sollevato il problema della presenza di Cangialosi nel casolare (uomo con trascorsi violenTi nei confronti dell’ex moglie), ha impugnato la sentenza di assoluzione e domani si arriva in appello.
Il 2 luglio 2005 Matilda Borin, a 22 mesi, moriva in circostanze giudicate misteriose dalla pubblica accusa. La piccola si trovava con la madre e il suo nuovo compagno in un casolare in provincia di Vercelli. Stando al racconto di Elena Romani, già assolta in primo grado, la piccola avrebbe strillato mentre lei si trovava fuori dal casolare. Quando la madre l’ha raggiunta, la bambina stava già malissimo. Agli atti c’è la telefonata di una madre angosciata al 118; una madre che chiede aiuto e che, 15 giorni dopo la morte della propria piccola, è stata accusata del suo omicidio. Nella vicenda si inserisce la famiglia Borin, nota a Busto per gestire un’importante agenzia di pompe funebri. Simone Borin, figlio del fondatore dell’attività di famiglia è il padre di Matilda: mai, e poi mai, ha creduto alla colpevolezza di Elena. Anzi, lui, il padre ferito, prostrato ai funerali della bimba, ha sempre difeso l’ex compagna. «Non è stata lei – ha sempre detto – Amava nostra figlia e mai crederò ad una versione diversa dei fatti. Non l’ha uccisa. E sarò sempre al suo fianco in questa vicenda». Oggi, alla vigilia del processo in appello, la famiglia Borin ripete il concetto: «Crediamo ad Elena e alla sua innocenza. E non avremo mai posizione diversa da questa», dice il padre di Simone. Una famiglia civile, umana, che mai ha tratto conclusioni vantaggiose ma ha sempre perseguito la propria volontà. Ovvero quella di credere all’innocenza di Elena, di non costituirsi mai parte civile contro di lei: eppure, è vergognoso dirli, ci sarebbero dei denari sul piatto. Ma i Borin sono giusti, non vogliono soldi tanto da non averli chiesti, vogliono la verità e credono all’innocenza di Elena. E se alla fine il colpevole sarà identificato, avranno il conforto della giustizia.
Se Elena, come dicono le prove in primo grado e la famiglia Borin, non ha mai fatto del male a Matilda, allora restano due ipotesi. O quella accidentale (alla quale l’accusa torinese non crede) o quella delittuosa: «In quella casa erano in due – ha detto Massironi, difensore di Elena Romani – Noi abbiamo chiesto delle verifiche su di lui. Speriamo ci siano concesse».
Simona Carnaghi
m.lualdi
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