MILANO – Le prove emerse in dibattimento “hanno scardinato l’ipotesi accusatoria” nei confronti di Lara Comi, rieletta eurodeputata in quota Forza Italia e tra gli imputati a Milano nel processo ‘Mensa dei Poveri‘. Vicenda che nel novembre 2019 aveva portato l’esponente azzurra agli arresti domiciliari per corruzione, false fatture e truffa ai danni dell’Unione europea per circa 500 mila euro e nei cui confronti la procura ha chiesto al Tribunale una condanna a 5 anni e mezzo di carcere.
A chiedere l’assoluzione di Comi con la formula “perché il fatto non sussiste” è stato il suo difensore, Gian Piero Biancolella, che oggi nella sua arringa ha cercato di smontare l’ipotesi accusatoria. Il legale ha affrontato per prima la parte che riguarda l’ipotesi di corruzione legata a un contratto per corsi di formazione voluto dall’allora direttore dell’ente regionale Giuseppe Zingale di Afol, pure lui imputato: per gli inquirenti quest’ultimo e l’allora coordinatore di Forza Italia in provincia di Varese Nino Caianiello avrebbero ricevuto una mazzetta da 10 mila euro,
per il tramite di Comi, in cambio del contratto di consulenza da 80 mila euro affidato all’avvocato ligure Maria Teresa Bergamaschi, amica e socia dell’europarlamentare. Una ipotesi, quella della Procura, che per l’avvocato Biancolella, si fonda su “quattro gambe” che a suo dire “non reggono”: non c’è traccia di alcun accordo corruttivo né di una truffa all’Unione Europea.
Tra gli elementi che per la difesa non reggono, ci sono le dichiarazioni “contradditorie e confuse” messe a verbale dalla stessa Bergamaschi che “sono inutilizzabili in quanto confliggono con ogni regola di diritto”. Inoltre anche le intercettazioni e le chat “non provano il presunto accordo corruttivo, tutt’al più possono far pensare a una concussione. Ma lei – ha proseguito la difesa – non ha mai assecondato alcuna eventuale richiesta di 10 mila euro”. Poi ci sono le parole dello stesso Caianiello che, interrogato, ha detto di non sapere se “erano stati presi accordi” tra la sua assistita e Zingale. Quanto alla truffa all’Unione Europea, l’avvocato, ha sostenuto che è provato, anche documentalmente, che l’aumento di stipendio al giornalista Andrea Aliverti corrispondesse a un aumento “del suo lavoro. I pm partono da un discorso inaccettabile: il sospetto che tale aumento fosse legato a una retrocessione” di denaro. Infine Biancolella ha anche sostenuto la mancanza di prova della presunta truffa legata ai contratti con il collaboratore Giovanni Enrico Saia di cui invece si sarebbe approfittato l’allora suo primo assistente, Giannipio Gravina “per dirottare in nero denaro alle sue società, drenando i soldi” alla Ue.