La rumorosa rivolta dei richiedenti asilo di Tradate e la sofferenza silenziosa di tanti cittadini italiani. Ci sono forse bisognosi di serie A e di serie B? I nostri vecchi dicevano che “chi ga vùsa püsè, la vaca l’è sua”. Chi urla più forte, finisce per avere ragione. Devono averlo capito in fretta, già più italiani degli italiani, i “profughi” ospitati all’istituto Melzi di Tradate, che martedì hanno inscenato una manifestazione di protesta contro i ritardi burocratici nella valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiati.
Benvenuti in Italia, verrebbe da dire. Da quanto tempo quella di una burocrazia più efficiente e veloce è una delle promesse che inondano i programmi elettorali di qualsiasi schieramento. «Li ascolteremo» annuncia l’amministrazione comunale di Tradate. Ora, ben venga un’accelerazione dell’iter di valutazione, che permetterebbe di capire quanti di quei “migranti” hanno diritto ad essere accolti in base alle convenzioni internazionali, e quanti invece sono tecnicamente solo dei clandestini.
Quello che, al netto delle strumentalizzazioni politiche che sono sempre inevitabili, forse non sempre si coglie, è il sentimento della gente comune nei confronti di questa costosissima gestione dell’accoglienza, che grida vendetta al cospetto delle tante persone e famiglie bisognose che finiscono in “lista d’attesa”. Generalizzare è sempre sbagliato, e tutti hanno il massimo rispetto per le storie di queste persone. Anche quando non arrivano da zone di guerra, ma dall’Africa occidentale e quindi da Paesi come Ghana, Senegal, Gambia e Mali, sono pur sempre esseri umani in cerca di speranza e di riscatto, che affrontano viaggi durissimi e rischiosi per cercare la loro “America”, come facevano i nostri bisnonni in altre epoche. Ma andate voi a spiegarlo al clochard italiano e varesino, che mangia alla mensa dei poveri e dorme nel centro di accoglienza, che i migranti (che abbiano o meno i requisiti per chiedere lo status di rifugiati) hanno diritto a vitto, alloggio, cure sanitarie e “pocket money” assicurati per molti mesi, mentre quel clochard vive alla giornata senza alcuna certezza di dove potrà ritrovarsi la notte successiva. Andate a spiegarlo alla famiglia disagiata che vive in un alloggio popolare e che deve fare i miracoli per pagare le bollette, o allo stesso immigrato regolare, che si spacca la schiena per sbarcare il lunario con un lavoro onesto e sudato, o ancora al piccolo imprenditore messo in ginocchio dalla crisi che si trova con le cartelle di Equitalia e i creditori alla porta e non sa come saldare i conti.
E ancora, quanti sfrattati popolano gli sportelli dei servizi sociali dei nostri Comuni: gente che ha perso la casa perché non è riuscita a far fronte alle rate del mutuo, disoccupati over 50 che non riescono a trovare uno straccio di posto di lavoro e devono decidere se comprare da mangiare o pagare l’affitto, padri separati costretti a tornare a vivere con i genitori. Dovrebbero scendere tutti in strada con un cartello in mano per avere qualcuno che dà loro retta? Iniziamo a dare ascolto e considerazione innanzitutto a questi bisognosi “nostri”, come li chiamerebbero i leghisti, e a metterci attorno ad un tavolo per trovare soluzioni anche per loro, magari chiedendo un aiuto a tutti quegli enti, privati e associazioni sicuramente meritori (ma forse non tutti) che ricevono laute ricompense per accogliere i richiedenti asilo anche nella nostra provincia. Qualcuno obietterà: è demagogia, così si alimenta solo una guerra tra poveri. Ma il problema è che la coperta è corta, e i bisogni non dovrebbero fare differenza.