Mostra Venezia, le radici della crisi con un grande Michael Moore


Venezia, 6 set. (Apcom)
– “Mi rifiuto di vivere in un Paese così. E non me ne vado”. E’ una delle frasi conclusive di “Capitalism: a love story”, il film di Michael Moore lungamente applaudito dalla stampa. Punteggiati da risate spesso amare, anche alcuni momenti apparentemente umoristici del film che ripercorre gli ultimi anni di storia finanziaria degli Stati Uniti, cercando però- fin dal dopoguerra- le radici di quanto avvenuto dallo scorso settembre. Sono le radici di quella “storia

d’amore” tra gli Usa e le leggi del libero mercato che ha lasciato sul campo morti e feriti. Questo racconta Moore, accusando apertamente le banche e Wall Street di una crisi venuta da lontano: “I ragazzi in Borsa non piangevano ancora, ma già negli otto anni di Bush la gente del Michigan, dell’Indiana, di città come Detroit, soffriva. La disoccupazione cresceva e cresceva, cosi come il divario tra ricchi e poveri”, ha raccontato nel primo incontro con la stampa, replicato stamane in una applaudita conferenza stampa.

Il potere economico- dice ancora Moore nel suo film- ha cominciato a dettare legge, fin nella Casa Bianca, con l’elezione di Ronald Reagan, nel 1980. Ed oggi? “Il 4 novembre è stato un giorno molto emozionante per me e per milioni di persone, che hanno scelto un uomo che gli ha detto di voler condividere le ricchezze, di credere in un codice etico, ma Obama ha bisogno di tutti noi, siamo noi che dobbiamo fargli fare quel che c’è bisogno di fare”- ha aggiunto Moore.

Protagoniste del film anche le storie di tanti americani del ceto medio, finiti in strada per il pignoramento della casa, per la crisi dei mutui, che ha innescato l’effetto domino sulle banche. E non risparmia nomi e cognomi Moore, intervistando politici ed economisti, ma nello stesso tempo, miscelando le informazioni e i dati con le boutade che lo hanno reso un personaggio (come cercare di arrestare il presidente della General Motors o aspettare i broker fuori dai cancelli di Wall Street): “Non avrei mai creduto di poter assistere in America al presidente Obama che licenziava il capo della GM. Uno dei giorni più felici della mia vita. E non sono solo- aggiunge- riesco a fare film come questi ad Hollywood perchè molti la pensano come me, credono che non debba esserci una pistola in ogni casa, né che milioni di persone siano senza assistenza medica, o che un Presidente possa trascinarci in una guerra sulla base di bugie. Ma io sono comunque parte di una macchina che funziona con le regole del profitto, che vanno cambiate. E chiedo al pubblico di essere con me”.

E il pubblico americano, sarà in grado di seguirlo? “L’80% degli americani non saprebbe indicare l’Iraq su una mappa. E si suppone che se invadi un Paese dovresti prima accertarti che la maggioranza della popolazione sappia almeno dove è! Quindi non mi stupisco di niente. Viviamo in un sistema che spinge all’ignoranza, che la incoraggia fin dalla scuola, e in una società in cui la stampa non fa il suo lavoro, perchè gli introiti della pubblicità vengono prima dei lettori”.

Non risparmia nessuno dunque Moore? Qualcuno si: gli americani vittime del capitalismo, che “hanno premiato Obama sempre più, man mano che lo accusavano di essere socialista”. Un film che deve suonare come un avvertimento anche per l’Europa, ha sottolineato il regista: “Avete sofferto qui come noi in America. E sappiate che più seguirete questi comportamenti, peggio troverete la vostra società. In Italia poi, avete questo leader pazzo conservatore, Mister Berlusconi….”, dice strappando l’ennesimo applauso in sala.

Capitalism: a love story” comincia con un montaggio parallelo in cui si racconta l’Impero romano, si vede l’America di oggi. Ma la vera sorpresa è nei titoli di coda, che scorrono sull’arrangiamento jazz di una musica che dopo una manciata di note si rivela l’Internazionale.

Mma

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