«La libertà di stampa risolverà sempre molti più problemi di quanti ne possa causare»: così scriveva Tocqueville a metà Ottocento. Riadattando, lo stesso si può dire dei social, che pure di problemi ne causano. Sì, perché pur con tutti usi e gli abusi impropri o strumentali, i social sono e rimangono prima di tutto una piattaforma di condivisione. Lo ha tragicamente confermato il terremoto del 24 agosto: chi quella notte ha avuto la fortuna di perdere solo il sonno ha potuto informarsi via Twitter con due ore di anticipo sui media tradizionali tramite le testimonianze dirette di chi era vicino ai luoghi colpiti;
molti hanno avuto conferma delle buone condizioni degli amici grazie al safety check di Facebook e anche il giorno dopo, mentre ora dopo ora si andava realizzando la portata drammatica dell’accaduto, i social hanno fatto il loro, diffondendo istruzioni precise su luoghi, orari e modalità per donare il sangue, l’Iban della Croce Rossa e il numero 45500 per inviare un aiuto via sms, l’elenco dei punti di raccolta e la lista dei beni di prima necessità. Sono senz’altro cose da niente, ma erano le uniche che fosse in nostro poter fare per sentirci un po’ meno impotenti davanti a quelle macerie. È solo e unicamente in questa misura, quella della loro utilità pratica, che dovremmo menzionare i social davanti alle tragedie. Perché tutto il resto non conta. Certo, li abbiamo visti tutti i sismologi della domenica, gli istigatori all’odio, le «legioni di imbecilli» di cui parlava Umberto Eco. Ma sarebbe gretto e meschino davanti a quasi 300 morti preoccuparsi di come l’utente medio usi i social; ancor più gretto e meschino, e stupido, lamentarsene (via social, ovviamente).