Profughi sudanesi rifiutano di farsi fotosegnalare e di fornire le impronte digitali: «Non vogliamo essere identificati in Italia».
È accaduto l’altroieri: la vicenda si è chiusa con l’arresto dei setti profughi per resistenza a pubblico ufficiale e la convalida dell’arresto ieri mattina con processo fissato al 13 marzo e i sette imputati rimessi in libertà.
O meglio affidati all’autorità amministrativa come vuole la normativa e accompagnati al centro d’accoglienza di Somma Lombardo.
Le attuali normative non consentivano altra soluzione; con il rischio di avere sette perfetti sconosciuti liberi per la provincia e potenzialmente per l’Italia intera. Il rischio è stato eliminato nella serata di ieri.
Dopo aver resistito per due giorni quasi, i sette hanno infine acconsentito a farsi foto segnalare. Ma l’episodio offre molteplici spunti di riflessione.
Il gruppo di giovani sudanesi, come da loro stessi confermato al giudice in aula, sono arrivati in Italia lo scorso 17 gennaio. «Su un barcone», hanno spiegato i sette in aula inquadrando quindi il loro arrivo in Italia attraverso quei viaggi della speranza che spesso si sono conclusi in modo drammatico.
Sbarcati ad Augusta, in Sicilia, insieme ad almeno altre 500 persone, sono stati poi divisi per l’identificazione in diverse questure italiane. Ieri sera i sette sono arrivati a Varese in pullman, insieme ad un ottavo profugo. Quest’ultimo ha declinato le proprie generalità ai poliziotti, sottoponendosi a foto segnalazione e fornendo le proprie impronte digitali. Gli altri sette hanno opposto un netto rifiuto.
Hanno fornito nome e cognome, invocando la status di rifugiato politico, fornendo una vaga indicazione sull’anno di nascita. Nulla di più.
I sette hanno tenuto fermamente le mani in tasca per evitare che i poliziotti potessero in qualche modo prendere loro le impronte digitali. In un numero consistente i sette hanno quindi opposto resistenza passiva buttandosi a terra e gridando.
Pronti a farsi trascinare via pur di non essere foto segnalati. Il pubblico ministero ha ordinato ai poliziotti di procedere con l’identificazione coatta. Procedura non riuscita: la norma consente un moderato utilizzo della forza incapace di piegare la resistenza passiva dei profughi.
È così scattato l’arresto. In aula i sette hanno prima dichiarato di aver subito costrizioni da parte delle forze dell’ordine.
Poi smentendosi hanno dichiarato di non avere avuto contatti fisici. Il perché della loro opposizione all’identificazione è stato presto chiarito.
La norma prevede che il profugo debba chiedere asilo politico nel Paese dove viene identificato. Nessuno vuole rimanere in Italia. Il nostro Paese viene considerata una frontiera facilmente violabile per andare altrove con maglie normative più larghe rispetto a quelle di altre nazioni. L’Italia è un punto di passaggio.
Farsi identificare avrebbe bloccato i sudanesi qui mentre la loro destinazione finale vorrebbe essere l’Inghilterra.
Per la maggior parte dei profughi le destinazioni finali sono Germania, Danimarca e Svezia, Paese considerati con una migliore politica d’accoglienza rispetto al nostro e con maggiori possibilità di integrazione.
Se i sette avessero continuato a non volersi fare identificare cosa sarebbe successo?
In assenza di misura di custodia cautelare non applicabile al caso, sarebbero stati sconosciuti a piede libero.