ha i capelli neri, lisci. Li porta a caschetto con una frangia ben definita sulla fronte: pettinatura e colore sono uguali a quelli della sua bambina di tre anni e mezzo, . Una piccola cinese, da poco meno di un anno catapultata dalla Mongolia Interna a Sant’Ambrogio, il quartiere di Varese dove Francesca vive con il marito Fabrizio: sono una delle quasi quattrocento famiglie che hanno adottato un bimbo in provincia negli ultimi cinque anni, a cui l’esclusione delle famiglie adottive dal bonus bebè della Regione non è andata giù.
«Non riguarda noi direttamente, perché Ying Ding è la nostra prima bimba, e la norma riguarda chi ha da due figli in su – spiega – ma voglio raccontare cosa vuol dire adottare un figlio, perché non è certo un percorso da mamma di serie B». «In un certo senso, mi sento un po’ più mamma di tante mie amiche con figli biologici. Perché per avere mia figlia ho aspettato due anni e mezzo, in cui mio marito ed io siamo stati valutati praticamente in ogni aspetto della nostra esistenza.
Ho passato mesi in attesa della telefonata che mi confermasse che c’era un bambino per noi. E riceverla è stata la gioia più grande della vita, anche se non è stato certo un percorso facile, da lì in poi». Quando Francesca e Fabrizio hanno deciso di adottare un bambino, hanno avviato le pratiche per l’adozione sia nazionale che internazionale. Ma quelle per l’internazionale si sono concluse prima: «Le fasi per la selezione sono state tante, perché i governi che danno in adozione i bimbi all’estero vogliono assicurarsi che le famiglie si prenderanno cura dei piccoli, che siano adatte psicologicamente ed economicamente ad accoglierli». Una fase molto lunga, ma che alla fine ha lasciato Francesca con «un certificato in cui si dichiara che, a 34 anni, sono una persona degna ed affidabile». Pronta, insomma, per crescere un piccolo.
A questo punto, è iniziata l’attesa. Mesi di limbo, in cui Francesca e Fabrizio aspettavano la telefonata con l’annuncio tanto atteso: sì, c’è una bambina per voi. «Da lì in poi le cose sono state velocissime – racconta Francesca – perché in Cina la convinzione è che un bambino sotto i tre anni non ricordi nulla, quindi non c’è bisogno, come si fa in altri Paesi, di fargli conoscere poco a poco i genitori, facendoglieli incontrare un po’ alla volta. Siamo arrivati a Pechino, poi in Mongolia Interna, e subito dopo essere sbarcati in hotel ci hanno consegnato Ying Ding, comprensibilmente sotto choc per lo sradicamento improvviso dall’istituto che, dal suo secondo giorno di vita, era stata la sua casa e la sua famiglia».
Pochi minuti per far firmare le carte necessarie ai due neo genitori, sconcertati quasi quanto la loro piccola per la fretta delle autorità cinesi, poi vengono lasciati soli, nella hall dell’albergo, completamente spaesati e con in più la piccola in lacrime. Francesca e Fabrizio restano in Cina una settimana, in cui si devono occupare di Ying Ding: una bimba di nemmeno tre anni che non capisce la lingua di questi due sconosciuti, così diversi anche fisicamente dagli adulti che l’hanno accudita finora. Una settimana in cui Francesca e Fabrizio cercano di comunicarle tutto l’amore possibile, per farle capire con i gesti e con i fatti, visto che con le parole è impossibile, che loro sono i suoi genitori, e che lei non verrà mai più abbandonata. Il ritorno a Sant’Ambrogio e l’inserimento in famiglia, però, alla fine riesce senza problemi. «Adesso la nostra vita è quella di una famiglia come tutte le altre – conclude Francesca – E chi è al Pirellone non può cambiare questo fatto. Deve cambiare mentalità».