C’è la storia meravigliosa e struggente di Giana Andreatta, moglie di Beniamino (un gigante della politica e dell’economia, mai abbastanza rimpianto nei grami tempi odierni). Accanto a suo marito ogni giorno, da quel 15 dicembre 1999 quando piombò in coma dopo essersi sentito male alla Camera fino al 26 marzo di otto anni dopo quando morì senza essersi mai risvegliato. Una storia di piccoli gesti e attenzioni quotidiane («Io non mi sento vedova, non sono vedova. Ringrazio di poter ancora vedere mio marito, di potergli parlare, di poterlo toccare» raccontò la signora Andreatta in un’intervista a Repubblica del 2003).
C’è la storia umanissima della signora Rosa, la mia vicina di casa, che per anni ha vissuto accanto a suo figlio in coma dopo un incidente: curandolo, amandolo, accarezzandolo, sperando. E c’è anche la storia di “Fabo”: andato in Svizzera a morire con dignità per evadere dalla gabbia nella quale era rinchiuso dal giorno dell’incidente che l’ha reso cieco e tetraplegico.
Ci sono centinaia e centinaia di storie così, nessuna uguale all’altra: ognuna con le sue sfumature, con le sue necessità, con le sue coscienze, con le sue sofferenze e con i suoi bisogni.
Storie che proprio con le loro differenze ci dicono una cosa molto chiara: così non va bene. Non può essere una legge, non può essere uno Stato a sostituirsi alle coscienze di chi vive sulla pelle (la propria, o quella di un familiare) un dramma come quello di Fabo, della moglie di Andreatta o della signora Rosa e di tutti quelli come loro.
La scelta di “staccare la spina” oppure di andare avanti, in quella personalissima percezione tra ciò che è vita e ciò che vita non è più, dev’essere lasciata al libero arbitrio. La libertà di essere liberi.