Washington, 5 mag. (Ap) – Nel G20 di aprile organizzato a Londra,
Barack Obama aveva promesso insieme agli altri 20 grandi del
pianeta di combattere in modo deciso contro i paradisi fiscali. E ieri, coerente così come si è mostrato anche nei primi 100 giorni
del suo governo, il presidente americano è tornato a rinnovare la
promessa, lanciando di fatto una battaglia contro tutte quelle
aziende e anche individui americani che, grazie alla presenza di
paradisi fiscali offshore, riescono a venir meno a quell’obbligo
che sono chiamati a onorare in quanto cittadini Usa: quello di
pagare le tasse.
Il presidente Usa ha presentato infatti un piano di riforma
fiscale Usa, chiedendo l’approvazione del Congresso; un piano con
cui ha di fatto lanciato la sua battaglia anche contro i paradisi
fiscali del pianeta; d’altronde, è lì che molte aziende Usa hanno
avuto vita facile, riuscendo a venir meno ai loro obblighi
fiscali.
Di certo, la battaglia ‘fiscale’ di Obama non sarà facile; molti
esponenti del Congresso sono pronti infatti a ostacolare il suo
disegno, che temono essere un preludio di un imminente aumento
delle tasse. Detto questo, non c’è alcun dubbio sul fatto che il
presidente ha fatto comunque il primo passo per “individuare e
inseguire”, come ha detto lui stesso, gli evasori delle tasse.
Il problema, ha spiegato il presidente Usa, è che il codice
fiscale attuale permette a molti americani “di pagare un
ammontare di tasse inferiore, nel caso in cui vengano creati (per
esempio) posti di lavoro a Bangalore, India, rispetto al caso in
cui l’occupazione venga creata a Buffalo, a New York”. E’ contro
tali agevolazioni che Obama promette la sua battaglia. Anche
perché “non possiamo premiare le società americane che operano
oltreoceano” e che non pagano le tasse. Certo, ha riconosciuto
lui stesso, “a nessuno piace pagare le tasse, specialmente in
tempi di crisi economica” quale quello attuale. Il punto però è
che “la maggior parte degli americani onora le proprie
responsabilità, perché capisce che il pagamento delle tasse è un
obbligo legato alla cittadinanza”; inoltre “l’assolvimento (di
questi obblighi) è necessario per pagare i costi della nostra
difesa comune e per assicurare il nostro benessere”.
Peccato però che il codice fiscale americano ha reso troppo
facile “per un piccolo numero di individui e per le aziende
riuscire ad abusare dei paradisi fiscali al fine di non pagare
affatto le tasse”.
Obama agita così il pugno di ferro, e presenta il suo piano, che
va a cozzare contro quanto stabilito dalla legge vigente. Il
codice fiscale attuale permette infatti alle società che hanno
operazioni all’estero di pagare tasse al Fisco americano solo se
rimpatriano i profitti negli Stati Uniti; questo significa che le
società possono non pagare mai le tasse – o rimandarne il
pagamento a tempo indeterminato – in Usa, fino a quando imputano
gli utili conseguiti nei bilanci offshore. Una bella scappatoia,
a cui Obama ha detto oggi ufficialmente basta (da segnalare
comunque che il piano di Obama inizierebbe a produrre i suoi
effetti nel 2011).
Ma il presidente non si ferma qui; il suo obiettivo è anche
quello di porre fine a una legge attiva dall’amministrazione di
Bill Clinton, che ha permesso finora alle aziende di evitare il
pagamento delle tasse considerando le sussidiarie che operano
all’estero alla stregua di semplici filiali. Una disposizione
che, secondo quanto spiegato dagli stessi funzionari del
presidente, è stata adottata per legalizzare altri tipi di
evasione fiscale, e per non pagare così miliardi di dollari
legati alle operazioni internazionali.
C’è però anche la proposta di rendere permanente un credito
fiscale sulla ricerca, la cui scadenza è stata fissata alla fine
dell’anno; ma a tal proposito Obama chiede che il 75% di questi
crediti fiscali venga utilizzato per coprire gli stipendi dei
dipendenti.
Cep
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