Omicidio Lidia Macchi. È lui il presunto assassino

Arrestato Stefano Binda, 49 anni di Brebbia. Lo inchioda una lettera. L’avrebbe violentata e poi uccisa per punirla di essersi “concessa”

“Aveva paura che Lidia raccontasse l’accaduto ai familiari, agli amici ai sacerdoti che entrambi conoscevano”. Parte dal movente il gip di Varese nella stesura dell’ordinanza di custodia cautelare eseguita alle 6.30 di ieri mattina dagli agenti della squadra mobile della questura di Varese a carico di , 49 anni, arrestato nell’abitazione di via Cadorna 5 a Brebbia dove vive con la madre.

Binda è accusato dell’omicidio volontario pluriaggravato di , l’angelo di Varese, la giovane e bellissima scout, studentessa di giurisprudenza, militante di Comunione e Liberazione, violentata e uccisa con 29 coltellate, che la città ancora oggi non si rassegna ad aver perso. Per l’accusa Binda, a sua volta figura carismatica di CL, violentò Lidia e poi la uccise “per essersi concessa” un fatto “contrario al suo credo religioso”. Binda per gli inquirenti uccise per “cancellare il suo peccato originale”.

Era il 7 gennaio del 1987 quando il cadavere di Lidia veniva trovato nei boschi del Sass Pinì a Cittiglio, un luogo non per lei così com’era frequentato da coppiette ambigue e tossicodipendenti. Nella borsa di Lidia fu trovata una poesia di Cesare Pavese che, a distanza di anni, un’amica definirà come “il cavallo di battaglia di Binda”, che conosceva Lidia, che la corteggiava forse, lui con “il fascino dell’intellettuale maledetto”, come oggi ricordano negli atti gli amici di allora. «A quel tempo Lidia, Binda e un altro amico, poi divenuto sacerdote, erano inseparabili», hanno raccontato agli inquirenti. Per 29 anni quell’omicidio è rimasto avvolto nel mistero. La svolta arriva nel maggio del 2014. Quando P.B., un’amica di Lidia e di Binda, apprende dalla trasmissione Quarto Grado di una lettera anonima recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia. “In morte di un’amica”, così si intitolava quella missiva scritta in forma di poesia. Per anni si ipotizzò che quella potesse essere la confessione dell’assassino ma non vi erano prove.
P.B. ricorda a quel punto di aver visto la riproduzione dattiloscopica dello scritto originale di “In morte di un’amica” sul quotidiano La Prealpina. E, a quel punto, realizza di riconoscere quella grafia. Perché l’autore di quella lettera trent’anni prima aveva scritto anche a lei. Cartoline, soprattutto. P.B. non ha dubbi: fu Binda a scrivere quelle parole. Così recupera le vecchie cartoline e consegna tutto agli agenti della squadra mobile. Il sostituto procuratore generale di Milano , che coordina le indagini dopo aver avocato il fascicolo, dispone una perizia grafologica. E il risultato è netto: Binda è l’autore di In morte di un’amica. L’uomo viene ascoltato, ma nega di aver mai scritto nulla. Nega e, per gli inquirenti, mente: “come fece nel 1987 quando disse che il 5 gennaio – giorno in cui Lidia scomparve dopo essere andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio – si trovava a Pragelato in una vacanza organizzata da Gioventù Studentesca”.

Binda invece era a Cittiglio: a fornirgli un alibi, cambiando poi leggermente versione ma tenendo Binda sempre alla larga dal delitto è un amico fraterno, oggi sacerdote a Torino. I poliziotti perquisiscono l’abitazione e trovano altri riscontri. In particolare agende del 1987. Alcune pagine sono state strappate in corrispondenza dei giorni del delitto, vi sono ritagli sull’omicidio e un foglietto dal titolo “Stefano è un barbaro assassino”, scritto dal Binda medesimo. Un quaderno rinvenuto in casa, secondo un perito, avrebbe “identità merceologica” con il foglio della lettera anonima giunta a casa Macchi il 10 gennaio 1987. Non solo c’è un’altra testimone che quella sera si trovava all’ospedale di Cittiglio e che vide “un’auto bianca di grossa cilindrata” (per gli inquirenti la Fiat 131 di Binda) arrivare e spegnere i fanali nel posteggio dell’ospedale. Poco dopo arrivò anche la Fiat Panda di Lidia che eseguì una manovra come se dovesse caricare qualcuno. Quindi si allontanò.
Per il Gip «Lidia cede il volante a Binda che la porta al Sass Pinì, luogo che lui conosce facendo all’epoca uso di eroina». Lì violenta Lidia, che non vuole in alcun modo. Poi la accoltella, la ragazza cerca di fuggire e lascia l’impronta della mano bagnata di sangue sul sedile. Binda la ferisce alla coscia. La ragazza a quel punto esce dall’auto e cade. Lui infierisce con 16 coltellate alla schiena. Poi la finisce con i colpi al collo e al volto.