Prima regola di Sanremo: crederci tantissimo. Ma proprio tantissimo. Seconda regola di Sanremo: esibire un pass. Non vi servirà probabilmente a niente, ma guai non esibirlo con tracotanza vagabondando in giro qua e là ricercando spasmodicamente l’attenzione di chiunque incrociate. Terza regola di Sanremo: il mare c’è ma non bisogna ricordarsene. Se infatti volete trovare un po’ di pace prendete la via del lungomare: non incontrerete anima viva e vi godrete uno spettacolo raro. Quarta regola di Sanremo: siate uno spettacolo nello spettacolo. Vestitevi in maniera improbabile, fingetevi sosia di qualcuno, datevi delle arie e avrete il vostro pubblico anche solo per una manciata di minuti. Andy Warhol deve essere passato dalle parti dell’Ariston in una settimana di festival a caso, pare certo.
Detto questo, la quinta regola di Sanremo é che almeno una volta nella vita bisogna venirci e respirare l’aria attorno alla kermesse. Un’esperienza caldamente consigliata soprattutto ai più scettici, a quelli che «Sanremo? Per caritá». Perchè? Perché non appena varcherete le soglie del centro cittadino vi renderete conto che il festival altro non è che una grande festa. In cui tutti, ma proprio tutti sono protagonisti. Ogni vetrina addobbata a tema, musica ad ogni angolo della strada (che sia dagli altoparlanti, da improvvisati scimmiottatori di chicchessia o da vere e proprie band alla disperata ricerca di una ribalta). E così capita di imbattersi, oltre che in almeno tre redivivi Pavarotti e nell’indimenticato Uomo Gatto di Sarabanda, in un concerto improvvisato di Fiorella Mannoia che dal palco di RadioDue esalta la folla con un corale «Quello che le donne non dicono». Così, come fosse la cosa più normale del mondo.
E poi la gente. Il pubblico, i curiosi, gli imbucati, i signori nessuno, i ragazzini che rimpallano impazziti da un angolo all’altro smartphone alla mano. Giáà, perché ormai, signori, l’autografo non esiste più. Roba datata. Ora il premio da portarsi a casa è il selfie, da ottenere in qualunque modo e a qualunque costo, infilandosi sotto le ascelle del cantante, azzoppando gli stuoli di addetti che li circondano, abbracciando il malcapitato artista a tradimento mentre cerca di non inciampare in un marciapiede.
Già, gli artisti. Splendidi. Gentili. Sorridenti. Non una smorfia, non un diniego. Almeno a Sanremo chi accetta di partecipare accetta davvero anche le regole del gioco, e sa che l’affetto è un prezzo da pagare. I cantanti ti capitano addosso anche se non li cerchi. Maledici un van a vetri oscurati che ti frena a due centimetri di distanza? Mentre il tuo impropero si sta ancora formulando nella tua mente la portiera si apre e ti scende una Elodie, un Albano con figli annessi (ombre che lo seguono riverenti ovunque), una leopardatissima Giusy Ferreri. E ti sorridono, ti salutano anche se tu li stai guardando con l’aria schifata tipo «ma proprio tu?» o con quella interrogativa del tipo «e tu chi saresti?». Niente, loro ti salutano come se fossi il vecchio cugino d’America che aspettavano da anni di vedere. Tutti vincitori, almeno da questo punto di vista.
Fanno anche tenerezza, a tratti. Per esempio mentre tu in un rigurgito di pogo elettronico post adolescenziale ti rimiri Samuel “dei Subsonica” intervistato da una delle innumerevoli radio (sono ovunque, persino dentro le vetrine dei negozi) e dietro di te Ragazzina Numero 1 sentenzia: «Ah, c’è quello dei Nomadi, che palle» e Ragazzino Numero 2 sbuffa: «Questo qua è un vecchio, andiamocene».
Sanremo trasuda festival ovunque, dalle mattonelle a terra con i titoli delle canzoni vincitrici ai cartonati dei big che spuntano tra i tavolini del bar, alle installazioni a tema in ogni aiuola. E chissenefrega se è nazionalpopolare. Fossero queste, le colpe. Viva Sanremo, viva cinque giorni in cui nessuno ha la pretesa di risolvere i problemi di una nazione ma ha solo voglia di regalare spensieratezza, viva i sanremesi. Si, viva i sanremesi. Gente di una gentilezza a volte imbarazzante, che ti spifferano in quale albergo stanno i vip, che ti regalano usufrutto di prese elettriche e Wi-Fi ovunque, che dicono grazie, prego e arrivederci. Scommettiamo persino che non si lamentano se chiudono una strada per motivi organizzativi? Chi ha orecchie per intendere intenda, e soprattutto venga a vedere cosa significa marketing territoriale. Viva il festival, ora e sempre