Il Nureyev della pallacanestro italiana, da tempo, ha smesso di ballare. L’età, d’accordo, ma soprattutto quegli infortuni bastardi che prima hanno tolto un sogno a lui e ad una città intera (anno di grazia 1990 e la finale scudetto persa contro Pesaro), poi gli hanno definitivamente impedito di continuare a volteggiare.
Questo ballerino massiccio, buono e serio è oggi un coreografo del parquet, amato ma anche discusso: nessuno ha lo stesso tocco nell’inscenare un basket veloce, frizzante e sbarazzino. Ha vinto una Coppa Italia, ha portato Sassari dove non era mai arrivata. Pare non basti più: anche “l’Isola felice” ha conosciuto l’inedito di critiche e mugugni. Alla vigilia dello sbarco Dinamo a Masnago, partiamo da questo.
Un po’ sì. Raggiunto un risultato, la gente ne aspetta automaticamente un altro. Anche i giornali pretendono di più. Ma bisogna guardare ai fatti: a parte il pessimo terzo quarto di Trento, le altre partite perse non hanno visto crolli. In alcune abbiamo anche tirato per vincere. L’Eurolega è stata difficile, soprattutto fuori casa.
È quello che auspico, perché abbiamo preso contatto con un tipo di pallacanestro che qui si vede solo ai playoff. Di certo ci ha prosciugato le energie, fisiche e mentali. Non ne parla mai nessuno, ma andare in trasferta dalla Sardegna non è lo stesso che farlo dal continente. Poi spero sempre di potermi confrontare con il meglio, ci mancherebbe.
Sarà dura, perché Varese ha trovato la quadra. Vincere a Brindisi ed a Caserta, in quel clima, crea consapevolezza. L’Openjobmetis ha una doppia dimensione molto pericolosa: temo i quintetti con Daniel e Diawara, ma anche quelli “cinque fuori” con Callahan.
Mi farà enorme piacere vederlo. Ma nulla potrà mai superare il mio primo ritorno a Varese: quell’applauso lo porto nel cuore…
…un giocatore arrivato dalla Russia in cattive condizioni fisiche. Cercai di farlo giocare molto per recuperare, poi si infortunò e saltò 5 o 6 gare. Fu un momento fondamentale: da fuori prese consapevolezza della squadra, capì il valore dei compagni ed al rientro iniziò a servire i suoi “cioccolatini” un po’ a tutti, facendosi amare. Pozzecco rendeva facili le cose difficili, come del resto Travis Diener: avevano una visione della pallacanestro che non si può insegnare.
Ne ha ricevuti anche troppi. Una cosa, tuttavia, gliela dirò personalmente: sei un esempio, controlla le parole. Dalle labbra di Gianmarco pende un pubblico giovane e sensibile: in alcune conferenze stampa i toni sono stati troppo alti. Non tutte le battute che fa devono essere prese per oro colato.
Oggi purtroppo conta soprattutto il fisico. Se ad esso un play aggiunge anche la visione di gioco, non viene in Italia: va in alta Eurolega.
Prima di Capo d’Orlando non mi interessava averlo vicino. Ducarello, mio assistente, mi diceva: vedrai che valore avrà… Aveva ragione: ti dà delle sensazioni uniche, alza la qualità della vita, è diventata la mia unica pretesa. Mai dire mai, però.
Le vittorie contro McAdoo e D’Antoni a Milano e lo scalpo di Reggio Calabria nei playoff del 1990. Giocavamo bene, ma ci mancava sempre qualcosa per vincere.
A noi auguro di essere capaci di giocare sempre al massimo: quando ci riusciamo non ce n’è per nessuno; a Varese dico che spero di incontrarla ancora nei playoff. Al basket: cambiate le regole e fate giocare di più gli atleti italiani. Per qualche anno si abbasserà il livello, poi si raccoglieranno i frutti. Ad una condizione, però: i nostri giocatori devono avere molta più fame.