VARESE – Nelle ultime settimane i nuovi casi di Covid hanno superato ripetutamente la “soglia psicologica” dei 100mila contagi giornalieri, riaccendendo il dibattito sulla prevenzione e la gestione del virus, in vista del periodo autunnale. Abbiamo discusso della situazione con il professor Marco Cosentino, direttore del Centro di Ricerca in Farmacologia Medica dell’Università dell’Insubria.
Professore, alla luce dei fatti, ritiene che tutte le misure intraprese dal governo per contrastare il covid siano state adeguate/necessarie?
Le strategie di gestione dell’emergenza fin dal principio hanno puntato unicamente su distanziamento, isolamento e quindi sui vaccini, questi ultimi presentati erroneamente come risolutivi in quanto in grado di ridurre il contagio e la trasmissione del virus, effetto mai documentato nelle sperimentazioni autorizzative e coerentemente non confermato nel mondo reale. Non si è prestata adeguata attenzione al potenziamento dei servizi sanitari, all’adeguamento delle strutture ospedaliere e al rafforzamento della medicina territoriale. La “vulgata” da subito ha negato la possibilità di impiegare rimedi farmacologici poi rivelatisi salvavita, quali antinfiammatori e anticoagulanti, e sono stati erroneamente sconsigliati anche i più semplici medicinali di automedicazione che – pur con evidenze limitate di efficacia – certo non comportano rischi significativi. In sintesi, si poteva e si può ancora oggi fare di più e meglio.
Ci sono attualmente tra i 60 e 120mila contagi al giorno, più del 2021 e del 2020 e siamo oltre l’80% di copertura vaccinale completa. Come mai?
I vaccini covid oggi disponibili hanno efficacia limitata, sia per intensità che per durata. Essi riducono – tutti più o meno nella stessa misura – il rischio di sviluppare un covid sintomatico, forse in alcune categorie ne limitano la gravità e probabilmente in certa misura ne riducono anche la letalità, sebbene quest’ultimo aspetto non sia confermato dalle sperimentazioni autorizzative. E – cosa mai sufficientemente chiarita – esercitano questi effetti per alcune settimane, qualche mese al massimo. E poi non resta che sperare nei richiami, la cui efficacia tuttavia è più che altro presunta, dato che studi clinici controllati e rigorosi sui richiami non ne sono mai stati realizzati e la loro somministrazione viene autorizzata sulla base della loro capacità di far alzare i livelli di anticorpi, quegli stessi anticorpi che nei guariti da covid non sono riconosciuti come indicatori di protezione.
Inoltre, nel valutare la letalità del covid non viene mai preso in considerazione il possibile uso di medicinali e altri rimedi farmacologici a casa, né tanto meno ci si chiede come i diversi ospedali e i diversi medici, in regioni e territori differenti, curino il covid e con quali risultati, questione fondamentale se davvero ci si prospetta un futuro di endemizzazione del virus. Per il covid nella pubblica comunicazione pare esista solo il vaccino oppure il nulla. Ovviamente non è così.
E riguardo ai positivi, li si trova in quanto li si cerca. I tassi di positività dei tamponi non hanno nulla a che fare con la circolazione del virus nella popolazione, dato che da noi non esistono programmi di monitoraggio epidemiologico.
Alla luce dei dati disponibili fino ad oggi, ritiene che i benefici del vaccino siano superiori ai rischi da evento avverso?
E’ molto difficile dare una valutazione serena ed equilibrata in un clima avvelenato da “guerra di religione” nel quale “o sei con i vaccini o sei contro”. I vaccini in uso da noi sono prodotti biotecnologici il cui meccanismo d’azione non è pienamente compreso e dunque probabilmente ancora sono lontani dall’essere impiegati in modo appropriato. Si insiste a trattarli come vaccini convenzionali, quando ad esempio rispetto al vaccino contro la pertosse, il tetano o il morbillo, questi sono tutt’altro. Si tratta semmai di prodotti molto simili ai medicinali, con un principio attivo che esercita degli effetti che andrebbero studiati con molta cura, cosa che ancora non è stata fatta né si capisce se e quando si farà.
Questo ha a che fare anche con gli effetti avversi, la cui valutazione e quantificazione è lontanissima dall’essere accurata e completa, anche dal momento che trattare l’argomento non è facile nel clima attuale.
Eppure alcuni dati oggettivi ci sono, specie se esaminiamo senza pregiudizio le informazioni disponibili. Ad esempio, una recente rianalisi degli studi autorizzativi dei vaccini covid Pfizer e Moderna (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4125239) confronta la frequenza di eventi avversi gravi (ovvero, decesso, pericolo di vita, ospedalizzazione, disabilità permanente, ecc.) con la riduzione del rischio di ricovero per covid, concludendo che in quegli studi si osserva aumento del rischio assoluto di eventi avversi gravi di 10,1 (Pfizer) e 15,1
(Moderna) per 10.000 vaccinati rispetto al placebo, mentre la riduzione del rischio di ospedalizzazione per covid rispetto al gruppo placebo è di 2,3 (Pfizer) e 6,4 (Moderna) per 10.000 vaccinati. Gli autori medesimi concludono che “l’eccesso di rischio di gravi eventi avversi … indica la necessità di analisi formali del rapporto rischio-beneficio, in particolare quelle stratificate in base al rischio di gravi esiti di covid come il ricovero o la morte”, che è precisamente quel che andrebbe sistematicamente fatto.
Rispetto a sintomi al pari dell’influenza, ha senso spingere le persone a fare la 4ª dose o renderla obbligatoria per determinate categorie?
I presupposti per l’obbligatorietà di questi vaccini non esistono e non esisteranno mai, proprio per i loro intrinseci limiti di efficacia e forse di sicurezza. Si tratta di prodotti con efficacia limitata che possono e devono avere un ruolo all’interno di una strategia complessiva che deve comprendere prima di tutto il rafforzamento della sanità pubblica e la formazione di medici e sanitari alla prevenzione e al trattamento del covid secondo le migliori esperienze fin qui acquisite.
E qualsiasi scelta sulla quarta dose, e poi sulla quinta e sulle successive, come pure sui “vaccini aggiornati”, “doppi” ecc. non può che fondarsi sull’attenta valutazione dei dati di efficacia clinica (no livelli anticorpali, bensì capacità di ridurre i rischi maggiori legati al covid, in che misura e per quanto tempo e a costo di quali rischi). Dati che oggi non mi pare esistano.
In vista dell’autunno e dell’inverno, in cui si parla già di ritorno di mascherine e green pass, Lei ritiene che siano strumenti utili per contrastare il virus?
Parafrasando una nota quanto infelice affermazione, il green pass da vaccino è la garanzia di trovarsi tra gente che può contagiarsi e contagiare gli altri. Indubbiamente la certificazione verde è tra le invenzioni più sfortunate di questo periodo senza precedenti che si sta prolungando oltre misura. L’equivoco sulla malintesa protezione conferita dai vaccini, posta alla base del pass, è probabilmente uno degli errori più drammatici di tutta questa vicenda, che non è possibile escludere abbia paradossalmente contribuito a diffondere i contagi. Diversa è la condizione di guarito, che evidenze sempre più solide indicano associarsi a una protezione solida e duratura, sicuramente oltre l’anno e forse anche oltre i due anni e più, a seconda degli studi. Altrettanto differente è la situazione di una persona apparentemente sana che abbia appena eseguito un tampone rapido con esito negativo, la quale con altissima probabilità non è veicolo di contagio. Per guariti e per sani con tampone negativo non serve certo una certificazione verde, oltre tutto discutibile e ampiamente discussa per la sua più che dubbia legittimità.
Rispetto alla campagna vaccinale di cui già si parla prevista per settembre (bivalente anti covid e anti influenzale), non c’è il rischio di sviluppare ulteriori varianti a fronte di malattie tutto sommato gestibili?
Che l’impiego di massa di vaccini “imperfetti”, come anche questi sono, possa essere tra i maggiori fattori implicati nella selezione di varianti più aggressive, fui tra i primi a farlo presente sulla base delle conoscenze disponibili già oltre un anno fa.
Certo, non bisogna nemmeno commettere l’errore di sottovalutare il covid, che è una malattia subdola, nella massima parte dei casi fortunatamente lieve e spesso quasi asintomatica ma che talora evolve repentinamente verso condizioni anche gravi. Proprio a questo aspetto mi riferivo in principio, sottolineando l’esigenza di rafforzare la sanità ospedaliera e territoriale e valorizzare le migliori esperienze di gestione e cura.
Rispetto agli eventi avversi, crede sia stata adeguata la farmacovigilanza?
No, nel modo più assoluto. La vicenda dei vaccini covid sarà ricordata come una sorta di “Caporetto” della farmacovigilanza. Viene detto che i dati derivanti dalle segnalazioni spontanee sono completi e esaustivi, quando su qualsiasi libro di testo tra i “fondamentali” della farmacovigilanza sta scritto che la segnalazione spontanea per sua natura e funzionamento non fornisce dati quantitativi, non consente confronti tra farmaci diversi ed è gravata da una inquantificabile ma sempre alquanto elevata sottosegnalazione (cioè medici e sanitari troppo spesso non segnalano), e per tutti questi motivi può e deve essere impiegata solo per generare segnali d’allarme da indagare poi con metodologie appropriate. Per i vaccini covid la situazione è aggravata dall’impiego per la valutazione delle segnalazioni dell’algoritmo WHO-AEFI (dove WHO è l’OMS che lo ha sviluppato e AEFI sta per “adverse events following immunization”) pensato per i vaccini convenzionali, cosa che questi prodotti non sono. Non a caso i maggiori effetti avversi oggi identificati, ad esempio le infiammazioni cardiache, non sono stati “visti” dalla segnalazione spontanea bensì da studi epidemiologici su vasti archivi di dati sanitari, indubbiamente più complessi e dispendiosi ma certo più appropriati ed efficaci.