C’è una storia che racconta mio nonno perfetta come parabola a commento della sparata leghista contro i prof meridionali, rei di accaparrarsi le cattedre padane, rubare il posto ai precari lombardi e tenere tutte le lezioni in dialetto calabrese (che poi a Varese si sia tentato di insegnare ai bambini “C come Cadrega” è un altro paio di maniche).
La storia è questa: un vecchio amico del nonno, nato all’inizio del Novecento, era apertamente, convintamente e orgogliosamente razzista. Nonostante l’odio per tutti i neri del globo terracqueo, si fece convincere dai figli a seguirli in un viaggio da sogno in Sudafrica, tra alberghi di lusso, safari fotografici e lodge cinque stelle.
Proprio quando iniziava ad apprezzare gli autoctoni («È così bello qui, perché non stanno al loro Paese?») il destino gli gioca un brutto tiro: appendicite acuta, da operare subito. Cinque ore di jeep e il nostro giunge finalmente in un ospedale di una città minore, ma il medico – guarda un po’ – l’è negher.
Con le ultime forze il malato si dibatte, ripete ai figli che no, mica può farsi mettere le mani addosso da un negher. Il qual negher, colta l’omofonia tra il dialetto lombardo e l’inglese “nigger”, non fa una piega: «Benissimo – dice – io sarei il primario, ma se crede cerchiamo un assistente». Cinque minuti dopo compare un dottorino spaurito e doppiamente bianco: perché di discendenza caucasica e perché terrorizzato all’idea di impugnare un bisturi.
L’amico del nonno – razzista sì ma scemo no – rivaluta in un nanosecondo il primario, che da negher diventa subito un mister doctor, sorry mister doctor. Questo per dire che in situazioni d’emergenza una cosa sola conta: chi è più bravo. Funziona così anche con la legge: conosco un ottimo penalista napoletano (Napoli e Bologna, com’è noto, sono le scuole di diritto per antonomasia) al quale milanesi e varesini sono ben felici di rivolgersi quando rischiano la galera.
Il legale storico di Umberto Bossi è Matteo Brigandì, nato a Messina. E non è un mistero che la clamorosa assoluzione di Silvio Berlusconi sia da ascrivere molto più a Franco Coppi, romanissimo principe del foro, che non al milanese Niccolò Ghedini. Ecco perché il polverone sollevato dalle dichiarazioni di Roberto Maroni è tristemente rivelatore della scarsa, scarsissima considerazione di cui gode la scuola pubblica. Il “no ai prof terroni” si è immediatamente ribaltato in “polentoni razzisti e ignoranti”.
E pochi, nei cori da stadio che da ambo le parti hanno rinfocolato le più becere divisioni tra Nord e Sud, hanno alzato la voce per dire una cosa talmente semplice da risultare perfino banale: l’emergenza educativa in cui versa l’Italia è tale da richiedere gli insegnanti migliori, quale che sia la loro provenienza. E poiché le capacità degli insegnanti nell’attuale sistema sono indicate da un punteggio numerico, toccherà prendere per buone le graduatorie nel loro insieme (al netto, cioè, degli inevitabili trucchetti che qualcuno metterà anche in atto per salire di posto) e rallegrarsi che ad ottenere la cattedra sia chi ha il punteggio più alto.
Per chi rimane fuori ovviamente dispiace, esattamente come dispiace per i migliaia di aspiranti avvocati che ogni anno tentano l’esame di Stato senza successo: capisco il loro dramma occupazionale, ma quando entro in uno studio legale non chiedo di parlare con il praticante.
Laura Campiglio
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