Siamo tra quelli profondamente contrariati (eufemismo) per lo scempio di Cittadella. Siamo tra quelli che pretendono orgoglio da chi indossa la maglia biancorossa. Speriamo nella salvezza, non siamo stolidi gufi: ma tra tutti questi fantasmi – in campo e in società: si possono sbagliare passaggi, parate e scelte, ma non si può fare spallucce, né sottrarsi alle critiche, né evitare di scusarsi e di lambiccarsi per rimediare – non troviamo più il vero Varese.
Perciò, da qui al Carpi, vi parleremo del vero Varese: su quello attuale troverete le dieci righe che merita.
Ci si salva a una sola condizione: smettendo di rivangare Marassi e i presunti crediti maturati in passato, abbassando la cresta e pedalando a testa bassa come quando si sollevava la polvere a Parabiago.
Ecco, Parabiago: la pietra angolare di ogni gradino della successiva scalata. Il paradosso è che si stava meglio quando si stava peggio: dopo lo sfascio prodotto da altri avventurieri, i Turri, si ricominciò senza soldi, senza acqua calda, senza sede, senza niente. Tre uomini e un sogno: si chiamavano Maroso, Papini e Belluzzo, il nume tutelare era Sogliano padre e presto sarebbe arrivato Sogliano figlio. Attorno, macerie.
Eppure fu l’inizio del ritorno alla vita: fuori dal tunnel non c’era il sole, bensì la nebbia e la salita, ma gli sconosciuti Franchetti, Pascuccio, Rostellato, Franci, Chietti, Lai e Cervellin non si fecero spaventare. Furono loro, poche stelline (Pisano, Macchi, Verderame, Sehic) e molti onesti gregari, a far sì che tutto il resto succedesse.
È a loro che i fantasmi ben pagati di oggi devono dire grazie, perché, se dieci anni fa non ci fosse stata Parabiago, chissà se qualcuno adesso li avrebbe ingaggiati. Ed è a loro che i signorini viziati di oggi devono guardare, perché quello è lo spirito con cui ieri si è arrivati in B e oggi ci si resta.
Da questo numero e fino a sabato vi parleremo di quelle facce piene di fango, di quelle maglie senza nomi, di quelle trasferte in macchina perché non c’era il pullman. Al Carpi penseremo sabato, prima spiegheremo al Varese perduto cosa vuol dire essere il Varese. E con voi, tifosi, condivideremo il piacere di un Varese povero e bello, con un cuore che batteva forte.
Faremo raccontare tutto questo a chi c’era. Cominciamo con Giacomo Croci, che dieci anni fa era un bomber di razza nelle categorie minori e oggi fa il cameriere a Barcellona. Fu lui, ragazzo cresciuto all’ombra del campanile e dello stadio di Masnago, a segnare il primo gol del vero Varese, addì 5 settembre 2004 a Parabiago.
Sappiamo di Pisano, arrivato in A. Sappiamo di Mangia, al quale tra due partite dovremo strappare punti pesanti. Adesso sappiamo di Croci. Chissà dove sono finiti gli altri, quelli che non erano campioni e dopo aver goduto indossando il biancorosso si sono accontentati di una vita normale.
Ci piacerebbe sapere quanto godano del biancorosso quelli che indegnamente l’hanno vestito a Cittadella. La risposta a parole non ci interessa: vogliamo quella del campo. Ne parleremo sabato, solo dopo avervi narrato le storie del vero Varese.
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