La morte è una cosa da grandi. Da vecchi, il più delle volte, o comunque da adulti. La morte non riguarda i ragazzi, e i ragazzi non si curano della morte. Sono troppo impegnati a crescere, vedere posti, conoscere persone. Sono troppo impegnati a vivere.
Poi c’è la storia di Isabel, che la morte se l’è data in un pomeriggio di primavera, per motivi che tanti ora cercheranno di ipotizzare, ma nessuno potrà mai davvero capire. Ed è una storia difficile da mandare giù, anche per chi l’ha conosciuta solo di nome, anche per chi non l’ha mai vista se non in foto , la nobile bellezza di quel viso struccato, gli occhi profondi e espressivi. Isabel doveva crescere, ci diciamo,
doveva esultare per l’ultimo giorno di scuola, doveva andare in vacanza e uscire con gli amici nelle sere d’estate. Doveva vivere, questa ragazza che ha scelto di morire a diciassette anni. Perché diciassette anni, così dicono, è l’età più bella. E perché tutto si sente dire dell’adolescenza – “l’età della stupidera”, secondo la vulgata dei nostri nonni – tranne il fatto che è una guerra. Una traversata impervia, difficile, dolorosa, che mette a dura prova tutti i ragazzi, anche quelli in apparenza meno problematici, più sicuri di sé.
Alcuni rimangono indietro, altri prendono vie traverse, altri, semplicemente, non ce la fanno. Ed ecco allora che la morte diventa una cosa da ragazzi, sì. Un paio d’anni fa l’Economist pubblicò uno studio sul tasso di mortalità giovanile nei paesi industrializzati, con dati, statistiche, grafici. La fredda burocrazia dei numeri consegnava ai lettori un quadro sconvolgente: la prima causa di morte tra i ragazzi, insieme agli incidenti e in alcuni Paesi prima ancora di questi, era il suicidio.
Un’epidemia silenziosa, un bollettino di guerra. Perché, del resto, si dovrebbe morire a vent’anni se la malattia, salvo crudeli eccezioni, risparmia i corpi più giovani?
A vent’anni si muore di domande, di vuoto, di mancanza. Non è un caso che ad andarsene siano spesso i ragazzi più sensibili, più riflessivi, più profondi, quelli che sarebbero diventati gli adulti migliori. E la colpa, si badi bene, non è di nessuno. Non della famiglia, non degli amici, non della scuola: di nessuno. È troppo facile, dopo, dire che i silenzi andavano interpretati, che certi sguardi erano una richiesta d’aiuto, che bisognava capire, fare qualcosa.
Stuoli di psicologi hanno speso parole per elencare ai genitori i “campanelli d’allarme”, i “segnali da non sottovalutare”. Ma se davvero si potesse prevenire la disperazione e prevedere l’attimo esatto in cui il male di vivere si trasforma nella scelta di non vivere più, la storia del mondo sarebbe molto diversa.
Il pensiero in queste ore non può che andare ai genitori di Isabel, che hanno perso loro figlia. C’è una parola per tutto, questo ci hanno insegnato, il linguaggio esiste per dare un nome alle cose, anche alle più dolorose: “Orfano” è chi perde un genitore, “vedovo” chi perde il coniuge.
Ma in nessuna lingua del mondo esiste una parola per indicare il genitore che sopravvive al figlio, come se tutte le culture, da sempre, avessero rifiutato di contemplare un dolore così enorme e innaturale, lasciandolo volutamente senza nome.
E allo stesso modo, non esistono parole per consolare. Solo un abbraccio, muto, in cui idealmente stringiamo la mamma e il papà di Isabel.
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