Quanta vita c’è nel tramonto all’hospice

Viaggio nel reparto di cure palliative del Circolo, dove l’amore dà coraggio e vince la paura della fine. Un ambiente familiare dove l’alleanza tra personale, pazienti e parenti fa ogni giorno piccoli miracoli

– «Grazie per l’articolo che avete fatto in occasione del matrimonio di . È importante che la gente sappia cosa succede qui e che ci arrivi un po’ di sostegno. Purtroppo a Varese ci conosco in pochi…». Perché presidente Verga? «Perché la morte fa paura». è il presidente dell’associazione Sulle Ali Varese, un insieme di volontari che ogni giorno prestano la loro opera all’interno dell’hospice dell’ospedale di Circolo. Ha gli occhi profondi, lo sguardo buono, la simpatia e l’ospitalità contagiose.

Liliana è colei che ha coronato il sogno di sposare il suo Giovanni, un altro Giovanni, proprio all’interno delle quattro mura che la ospitavano nel tramonto dei suoi giorni. Nel suo piccolo regalando al mondo – poco prima di lasciarlo – una storia che profumava di vita in modo intenso e superbo. Noi siamo semplicemente coloro che hanno avuto la fortuna di raccontare quella vicenda. E di venire a contatto con un mondo fatto di abbracci,

semplicità e tanto coraggio, un mondo che ieri abbiamo toccato con mano per la seconda volta. Lì dove l’ultima parola è detta sempre da un destino già svelato, si celebrava un’altra occasione di quotidianità felice: la festa di Natale. No, nessuna antitesi: sarebbe troppo banale descriverla così. Nell’hospice, nato con la legge 38 del 2010 sulle cure palliative, capisci che è la professionalità a incanalare la consequenzialità di due mondi destinati sempre a toccarsi. Che è l’amore a gestire il passaggio, a riempire l’anima di chi soffre, a lasciare ricordi indelebili. Un esempio? A festeggiare il Natale ieri c’erano tanti parenti di persone decedute in queste stanze pulite e colorate: la gratitudine è lacrime e sorrisi e può durare una vita. Facciamo un giro nel reparto – ambulatorio più una decina di veri e propri appartamenti – insieme ad , colui che coordina tutto il personale infermieristico. Anche qui sarebbe facile cascare nel gioco dell’antitesi: Antonio è calmo, sorridente, felice di parlare del suo lavoro. Antonio, quasi ogni giorno, si sente dire dai colleghi, infermieri di altri reparti, una frase che suona più o meno così: «Ma come fai?». «Io ci credo» ci risponde lui. Semplicemente. E lo fa mentre ci mostra quelle che sono vere e proprie case ospedalizzate, stanze dove il malato terminale può respirare la serenità di un ambiente familiare ed essere rispettato nelle sue esigenze e nei suoi desideri. E dove anche il parente ha i propri spazi, è accudito, sostenuto, lasciato libero di accostarsi ai propri cari.

Non bastano poche righe a descrivere la normalità di un mondo che tutti – chissà perché – immaginiamo anormale. Non bastano poche parole a narrare la storia di , volontaria di Sulle Ali che – insieme al personale medico e infermieristico – è il vero motore di questa normalità. Lei ci parla di quando sua madre è mancata all’ospedale Niguarda di Milano, ci trasmette l’umanità di un medico indimenticabile che ha reso più facile l’esistenza sua e dei suoi familiari in quegli ultimi giorni («Ci ha lasciato un’intera notte a leggere le poesie a nostra madre»), ci spiega come sia stata quella la molla che l’ha portata al volontariato attuale. Niente viene per caso, davvero nulla. Nemmeno la capacità di sapersi relazionare con situazioni inevitabilmente delicate: «I nostri volontari hanno una formazione continua e all’insegna del rigore assoluto – afferma , coordinatrice di Sulle Ali – E c’è una periodica analisi delle loro motivazioni. Non ci si può improvvisare». Ecco, abbiamo respirato la potenza della vita nel luogo dove si accompagna alla morte.