Ha ragione Crozza: viviamo nel Paese delle Meraviglie. Basti pensare che da Vipiteno a Lampedusa ogni anno le 3.000 case editrici regolarmente registrate sfornano la bellezza di 60.000 nuovi titoli. Un dato che non farebbe una grinza se il nostro fosse un paese di topi da biblioteca. Peccato che le stesse statistiche appena citate forniscano cifre impietose sulla propensione alla lettura del nostri connazionali: solo un italiano su tre dichiara di aver letto almeno un libro negli ultimi dodici mesi e un italiano su dieci afferma di abitare in una casa dove sugli scaffali ci sono ninnoli e foto della buonanima di zia Guendalina ma di volumi stampati neppure l’ombra.
Numeri questi che danno ragione a chi afferma che in Italia si leggono pochissimi libri perché la maggioranza è troppo impegnata a scrivere il suo per perdere tempo a sfogliare quello di altri.
Non è l’unico paradosso di un Paese difficile da inquadrare. Prendete le prossime elezioni amministrative. Anche a Varese, se parli di politica, ti guardano come se avessi detto una parolaccia. Cadendo nel tranello del tutta-l’erba-un-fascio (e l’ultimo termine, nell’adagio popolare, con ogni probabilità non è frutto di una coincidenza) si accomunano amministratori, burocrati, sindaci, consiglieri e onorevoli in un unico calderone che si vorrebbe bruciasse a lungo sul fuoco dell’indignazione popolare.
Mi viene in mente quel mio conoscente che fino a pochi giorni fa voleva andare a Palazzo Estense con un lanciafiamme per fare piazza pulita di quella che – secondo lui – era la palla al piede della Varese che verrà. Ieri sono state depositate le liste e il piromane mancato vi appare come candidato in una delle formazioni che appoggiano la coalizione che a Palazzo Estense fa il bello e cattivo tempo da quasi un quarto di secolo.
A giugno in lizza a Varese ci saranno sei candidati sindaci, sedici liste e 400 candidati. Alla faccia del bipolarismo, la semplificazione, il disboscamento di quel sottobosco politico che è da sempre terreno fertile per le gramigne infestanti il bene comune. Quattrocento candidati, se ci pensate bene, sono un’enormità: la città conta all’incirca 80.000 abitanti, significa che uno ogni duecento varesini (compresi centenari e lattanti) ha sentito il bisogno di mettersi in gioco a queste amministrative.
Ci sono facce nuove e vecchi marpioni, giovani e meno giovani, uomini e donne. Molti di loro evidentemente sorpresi sulla via di Damasco da una improvvisa conversione all’utilità della politica. E qui i casi sono due: o sotto i vari simboli ci sono finiti con la volontà di cambiare dall’interno le troppe cose che non vanno, oppure sono stati incantati dalle sirene del potere che fanno sentire il loro canto ammaliatore non solo dalle parti di Montecitorio o Palazzo Chigi. Lo si può udire, magari più flebile ma non per questo meno maliardo, anche in via Sacco e dintorni. Miscelato alla voglia di apparire, diventa un cocktail irresistibile.
Vogliamo augurarci che la carica dei quattrocento prenda lo spunto dalla prima motivazione. Battaglia condivisibile, ancorché ardua. Non solo perché le incrostazioni di questi ultimi anni sono diventate coriacee e dure anche solo da scalfire, figurarsi da rimuovere. Il rischio maggiore è che dietro questa simpatica armata Brancaleone di aspiranti consiglieri comunali ci sia, come al solito, un quadrato di ufficiali più attenti a difendere i propri interessi che quelli della comunità.
È un vecchio copione, visto e rivisto mille volte, che ad ogni replica consuma nuovi desolanti siparietti.
Come quello messo in scena dai Cinquestelle, partiti per cambiare l’Italia e, a Varese, finiti per litigarsi un posto in lista esattamente come i democristiani e i socialisti di cencelliana memoria. Ma forse è meglio così: se ci fossero stati loro le liste sarebbero state 17. E qualcuno sostiene che porta male.