Il caso Pantani è riaperto. La Procura di Rimini ha deciso di far ripartire le indagini a seguito di un dossier di 50 pagine presentato dal legale della famiglia, Antonio De Rensis. Un esposto che ribalta tutto, dimostrando in pieno l’ipotesi di omicidio. Shock? No. Clamoroso? Nemmeno.
Marco Pantani, quella dannata notte non era solo. E dopo dieci anni giustizia potrebbe finalmente essere fatta. In tanti lo avevano scritto, molti i giornalisti convinti. Brunel e Ceniti, non gli ultimi arrivati. Rileggendo “In nome di Marco”, opera a quattro mani di Ceniti e mamma Tonina Pantani, risalgono in superficie tante verità insabbiate, svariati vizi di forma che avrebbero cambiato le carte in tavola. Nessuna novità quindi oggi, nessuno scoop di chi troppo presto lo aveva etichettato come drogato.
Marco Pantani non si è suicidato, e forse forse quella piccola grande donna che é sua madre Tonina in questi dieci anni non ha urlato invano. «Il mio Marco é stato ucciso», una frase ripetuta all’infinito, con la forza di chi vuole giustizia. Contro tutti, contro coloro che la bollavano come matta. Tonina l’aveva detto anche a Varese: prima di morire vuole restituire dignità al suo Marco, vuole scoprire chi lo ha ucciso.
La riapertura delle indagini non è una novità, semmai un punto di svolta. Ed è inutile riempire titoloni con vignette per ricostruire ciò che ben conosciamo, ciò che in dieci lunghi anni è stato detto, scritto e prontamente insabbiato. Tanti i particolari tralasciati, le ferite sul corpo, la leggerezza dei soccorsi. Nessuno ebbe l’accortezza di prendere le impronte digitali, e la disposizione degli oggetti nella stanza lasciò molte perplessità sul fatto che potesse aver fatto tutto da solo. Il libro di Francesco Ceniti ripercorre minuziosamente ogni dettaglio, denuncia ogni errore di giudizio, a partire dal controllo antidoping che inchiodò Pantani il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Tutto iniziò da lì, da un controllo che poteva essere annullato, in quanto viziato da gravi errori dei commissari. E gli stessi commissari, interrogati da Ceniti, ammisero l’errore.
Per molti ciò che accadde quella notte al Residence le Rose di Rimini fu una morte da overdose, classica. Ma bastò poco per screditare quella tesi data per unica verità troppo in fretta.
Marco non passi ora per un sant’uomo, assumeva droga e questo nessuno lo dimentica, nemmeno la mamma, la prima a condannare vizi e debolezze del figlio. Non passi per un santo, però fu una vittima. Della sua stessa debolezza ma anche della tirannia altrui, dell’ambiente sporco che lo circondò negli ultimi mesi di vita, forse lo stesso ambiente che decretò con eccessiva frenesia il suo suicidio. Overdose, una verità che fece comodo un po’ a tutti. Il primo a sollevare dubbi sulla morte di Marco fu Philippe Brunel, giornalista dell’Equipe. Abbiamo dovuto aspettare un francese, forse perché in Italia andava bene così. Perché era una morte scomoda, con un’indagine altrettanto scomoda, da chiudere al più presto, benchè tutti sapessero quanto oscuro navigasse attorno a quella notte. Ma Marco non è morto a Rimini, è morto tante altre volte. E forse l’unico modo di ridargli un po’ di vita, è ridargli giustizia e dignità. Oggi nulla di nuovo, ma una svolta sì, finalmente.
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