Correva il 1869 quando un tenore spagnolo di venticinque anni, Julián Gayarre, capitò a Varese per debuttare in un’opera lirica nelle vesti del protagonista: Nemorino, nell’“Elisir d’amore” di Gaetano Donizetti. Arrivava dalla Navarra e la sua carriera sarebbe stata folgorante, grazie alla voce di straordinaria morbidezza e alla versatilità che gli permise di spaziare dai capolavori del Belcanto fino alle opere di Wagner.
A quei tempi la nostra città era una piccola capitale della lirica, e il teatro Sociale, voluto nel 1790 da una combriccola di ricchi “villeggianti” milanesi capeggiata da don Giulio Litta, e inaugurato il 5 settembre dell’anno dopo, era una Scala in miniatura, dalla formidabile acustica, dove molte opere furono rappresentate prima che al tempio milanese della voce.
Che vi debuttasse un tenore del calibro di Gayarre, tra i maggiori dell’Ottocento, non era quindi una sorpresa, né che più avanti vi avrebbero cantato Francesco Tamagno, Celestina Boninsegna, Lucrezia Bori, Vittorio Arimondi, e nel settembre 1896, anno della ristrutturazione del teatro, sarebbe arrivata, fresca del debutto torinese, nientemeno che “Bohème” di Giacomo Puccini, con gli stessi interpreti della “prima”, Cesira Ferrani ed Evan Gorga. Naturalmente, l’opera fu rappresentata alla Scala solo l’anno successivo.
«Andate alla Scala e vi udrete due, tre celebrità, ma in mezzo a queste celebrità vi salteranno fuori delle stonature stridenti, bastevoli alle volte per guastar tutto il resto. Qui niente di tutto ciò, ma un’esecuzione equilibrata, coscienziosa, omogenea», scriveva il critico “Pipi” nel 1889, dopo la rappresentazione al Sociale degli “Ugonotti” di Meyerbeer.
Molti varesini di oggi non sanno dov’era ubicato il teatro, in quella piazza Giovine Italia che accoglieva anche il lungo ed elegante edificio dell’ospedale cittadino, in un’area dove un tempo sorgeva «il monastero di Sant’Antonino e la casa della signora Cabiati. Per fare ciò si obbligò eziandio all’allargamento della strada Pomé (ora via e piazza del Teatro) coll’atterrare parte della casa del beneficio Perabò», scrisse lo storico Pompeo Cambiasi, che curò la preziosa cronologia delle rappresentazioni al Sociale.
/>Fatto il teatro, si trattava di educare un pubblico, ma vista l’energia dei soci fondatori e il numero di villeggianti delle famiglie patrizie e della buona borghesia milanese, tra Ottocento e inizi del secolo nuovo il Sociale funzionò a meraviglia, e molti cantanti preferivano esibirsi qui piuttosto che a Milano. Clamorose, infatti, alcune recite arrivate a Varese prima della Scala: “Il barbiere di Siviglia”, nel 1818 e due anni dopo nel teatro del Piermarini; “Lucia di Lammermoor”, 1838 contro 1839; “Traviata”, 1857 contro 1860, oltre naturalmente a “Bohème”. Incredibile poi la vicenda del rossiniano “Conte Ory”, rappresentato a Parigi nel 1828, a Varese l’anno dopo e mai dato alla Scala.
Un primato di cui vantarsi, assieme al palmarès di cantanti e direttori d’orchestra: il tenore Duprez, altro mostro sacro del Belcanto, il basso Varesi prediletto da Verdi, il soprano Ada Adini i cui dischi incisi per la Società italiana di Fonotipia sono tra le più grandi rarità collezionistiche. Per non parlare di direttori come Luigi Arditi, celeberrimo autore della romanza “Il bacio”, che nel 1843 compose una Fantasia per due violini su motivi della “Bianca di Santafiora” del conte Giulio Litta, valente musicista, o Giovanni Bottesini, eccelso contrabbassista e bacchetta della prima assoluta di “Aida” al Cairo. Nel 1909 maestro sostituto al teatro Sociale era un certo Victor de Sabata, tra i massimi direttori d’orchestra di ogni tempo, ma nell’Ottocento capitò da queste parti per esibirsi al pianoforte anche Maurizio Strakosch, futuro impresario della Patti, tra le più grandi cantanti dell’Ottocento.
Dal 1919 in poi, il Sociale ospitò anche le compagnie di prosa e qui l’elenco dei nomi si fa imponente, perché da Varese passarono tutti i più celebrati attori del tempo: Irma ed Emma Gramatica, Ermete Zacconi, Maria Melato, Antonio Gandusio e Dina Galli, Tatiana Pavlova, Giuditta Rissone e Sergio Tofano, Armando Falconi e Wanda Capodaglio, Lyda Borelli, Alexander Moissi (sepolto a Morcote) e il leggendario Ruggero Ruggeri, che amava talmente l’acustica del teatro da provarvi ogni suo nuovo spettacolo.
Fu il cinema e il disinteresse prima dei palchettisti e poi del comune a decretare il declino e poi la fine del teatro Sociale, acquistato nel 1938 dall’industriale milanese Eraldo Bonecchi, che avrebbe voluto ristrutturarlo secondo criteri moderni e destinarlo soltanto al cinema e alla prosa. Non se ne fece nulla e la sala diventò prima magazzino militare durante il secondo conflitto e poi ricovero per i clochard della città.
A Varese il teatro ormai era l’Impero, che avrebbe accolto anche opere liriche, e così il 18 settembre 1953, data funesta per la cultura cittadina, il piccone pose fine a 162 anni di vita artistica. Terminava un’irripetibile avventura di uomini, musica e parola che niente ha saputo sostituire, se non vaghe promesse, denari buttati e sterili scontri politici. A sessantuno anni dalla demolizione del Sociale, Varese rimane orfana del suo teatro, ma se questo fosse ancora in piedi probabilmente sarebbe trasformato in un discount.